Una stagione in chiaroscuro

Una stagione finita male, com’era cominciata. Dall’1-4 interno con l’Atalanta della prima giornata allo 0-2 in casa del Sassuolo c’è stato un cammino altalenante, con qualche impresa, alcuni scivoloni inspiegabili e un’involuzione generale, rispetto alla grande annata 2019/2020, che nel finale post-lockdown aveva già anticipato temi venuti fuori nel campionato appena concluso.

Problemi di panchina corta e di usura di qualche titolare, che non sono stati risolti in campagna acquisti. I nuovi arrivi non hanno convinto: l’unico dal rendimento sufficiente è stato Reina, che ha però tolto il posto a Strakosha, ottimo protagonista delle stagioni passate. L’acquisto che doveva coprire il vuoto lasciato da Lulic, alle prese con un infortunio che ne ha messo a rischio la carriera, è stato il più deludente.

Fares non si è inserito, ha alternato periodi di stop per problemi fisici, e Inzaghi ha dovuto inventarsi soluzioni alternative. Per fortuna la duttilità di Marusic si è rivelata preziosa, altrimenti la mancanza di un esterno valido, col modulo utilizzato dal tecnico, avrebbe prodotto guasti anche peggiori. Il vuoto, alla fine, è stato colmato col rientro di Lulic, che pian piano ha recuperato una forma appena accettabile.

L’altro disastro di mercato è stato l’acquisto più costoso: Muriqi non ha reso secondo le aspettative, pur impegnandosi allo spasimo, e non è riuscito a sfruttare le occasioni che ha avuto, non molte, per la verità, tranne che nelle ultimissime giornate. Limiti tecnici che  sembrano difficili da superare, per un giocatore che poteva rappresentare una valida alternativa per l’attacco.

Non ha lasciato il segno Pereira, arrivato in extremis per mitigare la delusione per il mancato arrivo di David Silva, sogno accarezzato in estate, e nemmeno il ritorno di Hoedt ha fatto dimenticare la delusione per l’acquisto di Kumbulla, sfumato a vantaggio dei rivali cittadini, che a loro volta hanno preso una discreta fregatura, visto il prezzo che si sono impegnati a pagare per un giocatore che si è rivelato mediocre. Di contorno l’operazione che ha portato Akpa Akpro da Salerno e l’arrivo di Musacchio a gennaio per sostituire l’infortunato Luiz Felipe, e appena sufficiente l’apporto di Escalante, vice Leiva di appena discrete qualità.

Con un mercato così (senno di poi) la qualificazione agli ottavi di Champions League è stata un mezzo miracolo, anche perché è maturata con la squadra falcidiata dal Covid.
Alcuni giocatori hanno accusato ricorrenti problemi fisici che ne hanno limitato il rendimento. Luiz Felipe è stato fuori a lungo e non ha ripetuto la grande stagione passata, Caicedo e Correa hanno accusato continue difficoltà fisiche, alternando prestazioni importanti a eclissi improvvise. Lucas Leiva è apparso logoro, soprattutto nei momenti in cui ci sono stati impegni ravvicinati.

I pezzi più pregiati hanno lottato, ma anche per loro è stata una stagione in calando: Immobile, eccellente solo nella prima parte, Luis Alberto, brillante in fase realizzativa ma meno efficace come suggeritore, Acerbi, più portato del solito a prendersi libertà tattiche che hanno un poco penalizzato la difesa. Grande stagione invece per Milinkovic-Savic e Marusic, due che hanno sempre dato il massimo e offerto un rendimento importante in campo.

Solido anche l’apporto di Radu, sempre valido e approdato al record di presenze in biancoceleste. Detto di Lulic, non si può non dire di Parolo, anche lui costretto a recitare più ruoli in commedia. Tutti e due sono arrivati ai saluti e sarà difficile trovare qualcuno che li sostituisca degnamente. Cataldi non ha brillato, Patric ha offerto il solito contributo d’entusiasmo e confusione.

Simone Inzaghi ha gestito la truppa, con tutti i problemi che abbiamo evidenziato e con l’incertezza sul rinnovo del contratto. Ha fatto un discreto lavoro, con qualche errore e la necessità di rimontare un gruppo di avversarie molto forti dopo aver perso punti nella parte iniziale di stagione. Non ce l’ha fatta, ma è rimasto in corsa fino a 5 gare dal termine, cadendo a Firenze quando sembrava possibile un filotto di vittorie per una qualificazione in CL che avrebbe coronato gli sforzi di tutti. Il filotto c’è stato, ma di sconfitte, e ha guastato l’umore generale.

Infine, il giallo: resta o va via? Tra qualche ora si saprà.

La valutazione sulla stagione è sufficiente, con un finale che ha rovinato tutto. Speriamo rimediabilmente. Il voto alla squadra non può essere alto, anche se va diviso chi ha fatto bene da chi ha deluso. Il voto alla società non può essere migliore: la squadra andava rinforzata, lo sforzo economico c’è stato, le scelte sono state un disastro. La palma del peggiore, stavolta, tocca a Igli Tare.

 

Caccia al Mister

La stagione si concluderà con l’inutile ultima gara in casa del Sassuolo. La caccia al Mister, intanto, è cominciata, visto che la firma di Inzaghi sul rinnovo del contratto ancora non arriva. In questi mesi c’è stato un rimpallo continuo tra tecnico e società, ciascuno sempre pronto a minimizzare la questione del rinnovo. Che intanto è arrivata al capolinea: o si firma, o si cambia.

Ogni volta che Inzaghi è finito davanti a un microfono, recentemente, ha ricevuto la domanda delle cento pistole: resti o te ne vai? Lui ha sempre glissato, rimandato, posticipato. Anche quando era gratis e in qualche modo rassicurante per tutti, anche per far cessare il fuoco delle domande, fare un’apertura e dire: ma sì che resto.

Non gli è scappato manco un lapsus, bocca cucita, sempre tutto bello, ci vogliamo bene e ce ne vorremo, siamo cresciuti insieme eccetera. Dal che discende che, probabilmente, le strade di Inzaghi e della Lazio stanno per separarsi, o perché la società preferisce cambiare, o perché il tecnico ha altre proposte, oppure perché i rispettivi programmi per il futuro segnano una divergenza di vedute.

Da tempo serpeggia e si tocca con mano, tra social e media, una certa insofferenza. Cinque anni con un allenatore sono tanti, in Italia non si arriva quasi mai a un rapporto così lungo, e quando le cose cominciano a non andare benissimo si tende a dimenticare quanto di buono è stato fatto.

Inzaghi con la Lazio ha vinto, mostrato un gioco anche entusiasmante, per lunghi tratti, ha valorizzato giocatori facendone elementi di livello internazionale, ovviamente lavorando su una materia prima di qualità. Spesso è riuscito a farlo nel perenne navigare controvento della società, un vento particolarmente fastidioso soprattutto nell’ultimo anno, tra polemiche sul campionato sospeso per il covid, querelle per il valzer dei tamponi, campagne denigratorie con finalità politiche eccetera.

Se Simone se ne andrà chi arriverà? Il nome più gettonato è quello di Gattuso, che non si è impegnato con la Fiorentina, dopo settimane in cui, soprattutto da Firenze, arrivavano spifferi su una fase avanzatissima di trattativa. Anche a Firenze, figuriamoci a Roma, Ringhio veniva salutato senza particolari entusiasmi. strano, visto il curriculum da giocatore e da tecnico, in una realtà depressa come quella Fiorentina.

Meno strano se si parla della Lazio, ma  comunque singolare: Gattuso sta conducendo il Napoli alla qualificazione in Champions, e sappiamo bene quanto fosse difficile raggiungerla quest’anno. Lo fa da separato in casa, avendo da tempo rotto i rapporti col suo presidente. Lo fa avendo vinto la Coppa Italia, l’anno scorso, e perso la Supercoppa per un rigore sbagliato da Insigne. Il suo Milan ha sfiorato la Champions pur avendo una situazione di caos societario che si è risolta, almeno in parte, solo quest’anno.

Non pare, insomma, una scelta di ripiego. Forse è conservativa, nel senso che, come avvenuto in altri momenti, il cambio della guida tecnica giustificherà una campagna acquisti non troppo rivoluzionaria, anche e soprattutto per via della difficile contingenza economica.

Gattuso, insomma, non sarebbe accolto dalla banda e dalle majorette, ma il suo modo di porsi schietto e leale supererebbe facilmente certe resistenze, soprattutto se la squadra dovesse trovare un buon rendimento sul campo. Le alternative, suggestive, riguardano qualche grande ex: Mihajlovic, che sembra orientato a rimanere a Bologna, la cui carriera per ora si sta srotolando in tranquille piazze di non grandissime pretese. Sarebbe una scelta del cuore, ma Sinisa al momento non pare l’opzione migliore.

Più intrigante sarebbe l’ipotesi Conceiçao. Il secondo ritorno del popolare Meo Amigo, dopo l’incolore passaggio di fine carriera,  potrebbe rappresentare una risposta alla scelta di Mourinho operata dai dirimpettai, per giunta nel bell’idioma portoghese. Sergio si è distinto nel Porto, eliminando la Juventus nell’ultima Champions, e sarebbe un bel rilancio, per un’avventura tutta da vivere. Nei prossimi giorni sapremo.

Finisce in farsa

Il paradosso del finale di stagione laziale: se un tifoso avesse potuto scegliere quale gara vincere, tra il derby e quella col Torino, non avrebbe avuto dubbi. La campagna di stampa contro Lotito, la Lazio e Immobile ha avvelenato tutto l’inverno e c’era il desiderio di vedere lavate sul campo le offese roventi ricevute dal presidente del Torino e dai suoi scherani a mezzo stampa.

Per questo motivo e per rispondere positivamente agli stimoli di Inzaghi, desideroso di aiutare il fratello nella corsa alla salvezza, la squadra ha raschiato il barile, quasi vuoto, delle risorse psicofisiche, lanciandosi all’attacco. Disordinatamente, ma con forza.
Ne è uscito un match col Torino asserragliato in difesa del fortino, soprattutto nel secondo tempo, e la Lazio frenata da un arbitraggio ostile: due rigori negati, un gol annullato per un contatto venialissimo, squilibrio totale nella distribuzione dei cartellini, 4-0 per la Lazio, che allunga il suo primato di squadra più ammonita dell’universo.

Così Ciro spreca sul palo l’occasione del rigore concesso e si vede annullato il bel gol segnato, Muriqi si danna l’anima senza fortuna, Luis Alberto litiga per tutta la gara con il minaccioso Rincon e il palo di Lazzari allo scadere rappresenta bene la partita. Sarebbe stato annullato l’eventuale gol, visto che si è ripartiti dal solito fallo fischiato agli attaccanti.

La coda scandalosa di uno sguaiato Cairo, che insulta Lotito in tribuna e Immobile negli spogliatoi, aumenta se possibile la rabbia dei tifosi, che si riversa sui social. Una rivalità tra società che avrebbero più di un’affinità, voluta da un dirigente che spesso si è distinto per comportamenti discutibili. Appuntamento al prossimo anno.

Nell’occasione si ferma anche la lunga serie di vittorie interne della Lazio (primo pareggio del 2021 in casa) e la lunghissima serie di partite interne con almeno un gol segnato. Resta l’impegno finale col Sassuolo, a questo punto ininfluente, prima di passare a progettare la prossima stagione, archiviando questa, conclusa nel peggiore dei modi.

The day after

Perdere un derby, a Roma, è un evento ricorrente: le due squadre si alternano nel predominio cittadino, e capita di frequente di festeggiare o di rimanere scornati.
In terre abituate alla competizione senza esclusione di colpi si dice che “chi perde non cogliona”, quindi non si accampino scuse che hanno l’effetto di far godere di più chi ha vinto. Ci si rivede alla prossima e stop.

L’atmosfera da day after, però, è nelle viscere del tifoso, e per noi laziali è doppia: fino all’ultimo abbiamo rincorso la zona Champions, ma da tempo avevamo la percezione, netta, che fosse difficile arrivarci, perché le vittorie arrivavano quasi sempre alla fine di vere e proprie battaglie di nervi, e le sconfitte, spesso maturate contro avversarie alla portata, sembravano dovute sia alla concentrazione (la testa altrove nelle atroci vigilie di Champions) sia all’incapacità di uscire da un tema tattico se l’avversario indovina le contromisure, critica che è stata spesso mossa a Inzaghi, a proposito ma anche tralasciando il fatto che il copione non sempre veniva interpretato a dovere.

Così il giro palla da Grande Olanda visto in certe occasioni si è trasformato in stucchevole e inconcludente tictoc in altre, altro che tiki taka. Vedi il secondo tempo di ieri. Un evento avverso, come la svolta arbitrale di Napoli, ha dato la stura al diluvio che ha inchiodato un singolo apprezzato per gran parte della stagione, Reina, a un brutto finale, in cui ogni tiro era gol (vedi Pedro ieri sera), anche quelli che non sembravano impossibili da prendere.

La stagione serrata imposta dal Covid ha sottoposto alcuni singoli a un tour de force che ha messo a nudo la resistenza di Inzaghi al turnover, probabilmente dovuta alla troppa differenza di qualità tra titolari che giocano sempre, basta respirino, e riserve che maimaimai hanno una chance per davvero. Questa resistenza, fondata su un giudizio tecnico qualificatissimo, quindi poco opinabile da non addetti ai lavori, ha finito, però, per aumentare quel solco tra titolari e riserve, che non sono mai state considerate parte di un progetto per davvero, e questo non ha certo agevolato la loro inclusione e il loro rendimento in campo.

Quindi il day after della Lazio deve partire da un’analisi seria e profonda di quello che non ha funzionato, senza fare i medici pietosi rievocando le belle vittorie di stagione: il Borussia, il derby d’andata, Bergamo, il Napoli, il Milan. Alla fine, poche.

La Lazio poteva salvare la stagione finendo con una striscia di vittorie che, da Firenze in poi, avrebbe garantito al 100% l’ingresso nei 4. Proprio la sconfitta di Firenze ha visto, invece, ammainare la bandiera biancoceleste, lasciando il passo alla prestazione penosa col Parma e alla resa incondizionata di un derby cominciato discretamente e finito al gol dell’armeno, maturato in circostanze che la dicono lunga sullo stato dei biancocelesti, visto il modo in cui Dzeko ha disposto del leonino Acerbi.

Serbatoio vuoto, testa scarica, nessuna convinzione di poter centrare l’obiettivo, squadra che crolla alla prima avversità, estrema debolezza di alcuni punti fermi che a questo punto sarebbe stato meglio escludere dal campo. Il senno di poi.

Ma un sesto posto con annesso crollo finale, pur aggiunto alla bella qualificazione agli ottavi di Champions, è un risultato che racconta un fallimento. Diverso da un’esclusione dalla CL maturata lottando fino all’ultimo. Una differenza piccola ma netta, anche se l’epilogo sostanziale sarebbe stato lo stesso. Una differenza che aiuterà, si spera, a chiarire a tutti le idee per il futuro, perché c’è sempre un’altra partita, un’altra stagione eccetera.

E già che ci siamo, col Torino non si può  snobbare l’impegno, dopo la tempesta di fango scatenata da Cairo contro Lotito e la Lazio, durante tutta la stagione e ancora prima. La Lazio deve onorare l’impegno e vincere. Lo deve a sé stessa prima che a noi tifosi.
Non servirà a lenire le ferite di questo brutto mese di maggio, ma è doveroso.

Titoli di coda, anzi, no. Ci pensa Ciro

La Lazio non ci crede più, ma l’aritmetica ancora non la esclude dalla zona Champions, grazie al gol che Immobile segna allo scadere di una partita brutta e inconcludente.
Vittoria che serve ad allungare la striscia positiva in casa e a consolidare il sesto posto. Magra consolazione, ma l’atteggiamento in campo della squadra sembra dimostrare quanto poco si creda nel filotto di vittorie che potrebbe voler dire rimonta.

In realtà il campo ha detto: stagione finita, al massimo pensiamo al derby. La vittoria è arrivata grazie a qualche parata provvidenziale di Strakosha, con l’aiuto dei pali della porta: due per il Parma, contro una traversa di Luis Alberto nel primo tempo. La Lazio ha sbattuto contro il muro predisposto da D’Aversa, incapace di variare il tema tattico che prevedeva un flipper di passaggi per sfondare al centro. Nessuna situazione pericolosa creata, pochi cross fin quando è stato in campo Muriqi, combattivo ma non all’altezza della situazione.

L’ennesima prestazione disastrosa di Fares riduce le alternative possibili. La noia ci divora, mentre Inzaghi si sbraccia inutilmente, ma non trova il modo di riattivare i suoi.
Fin quando Immobile non trova, sul filo del 95′, la zampata del campione. 150 gol, anche se questo servirà a poco. Ora il derby, per chiudere degnamente una stagione che lascia qualche rimpianto. Non troppi, perché l’involuzione della squadra è palese, e anche stasera se ne capiscono i motivi, vista la prestazione di qualche “rinforzo” non all’altezza del compito.

Lotito, per esempio

Giorni di festa per Claudio Lotito: doppia promozione nel giro di poche ore, con la Lazio Women e con la Salernitana. Una soddisfazione che mitiga l’ansia per l’esito finale della lotta per i piazzamenti in Champions League, che difficilmente vedrà la Lazio confermare la bella partecipazione dell’anno scorso.

Si proverà a vincere le quattro gare restanti, sperando che basti, ma la mancata qualificazione, al massimo, obbligherà la Lazio a una correzione di rotta. La gestione oculatissima delle finanze societarie avrà consentito al Presidente della Lazio di congegnare una strategia di ripiego in grado di contenere il danno portato dal precipizio scavato dalla pandemia.

Il grido di dolore del mondo del calcio, strangolato da debiti contratti per vivere al di sopra delle proprie possibilità, non riguarda la Lazio, se non di striscio. I biancocelesti sono inseriti nel sistema e dovranno rivedere al ribasso le stime dei ricavi e l’ipotetica valutazione dei gioielli Milinkovic-Savic, Correa, Luis Alberto in prospettiva mercato.

Problema secondario, però, visto che la Lazio, in genere, cede solo chi non desidera restare a Formello. La società assorbirà con gli introiti della Champions League 2020/2021 i mancati incassi al botteghino imposti dalla chiusura degli stadi e tenterà di tamponare la contrazione degli introiti da diritti tv, maturata in uno scenario di guerra senza quartiere interna alla Lega, di cui sono arrivati echi e schizzi di sangue (e non solo) sulle pagine dei giornali, sui social e sui media in generale.

Il punto è sempre il solito: Lotito attira su di sé critiche, strali, antipatie, invidie,  sfottimenti e contumelie. Saccente, intrigante, moralista, maleducato, ridondante, tronfio, antipatico, tirchio, parvenu. Ma i risultati stanno lì, in bella mostra, a dire che il suo modello di gestione è virtuoso e attraverso l’equilibrio raggiunge risultati tecnici importanti.

Partendo da un presupposto: una società di calcio può contare su entrate che in gran parte possono essere influenzate da elementi aleatori. Tipicamente, le scelte di mercato, gli esiti del campo, spesso legati a fattori imponderabili, l’influenza degli arbitri e degli infortuni.
Da questi presupposti deriva la sua morigeratezza nel contrarre debiti, che nel calcio spesso vanno a finanziare campagne acquisti e ingaggi faraonici che hanno un’influenza nefasta sul conto economico delle società. Durante la sua gestione non ha mai dovuto ricorrere ad aumenti di capitale per ripianare perdite rovinose, evento che nel calcio rappresenta la normalità.

Questo atteggiamento prudente, unito allo slancio moralistico/moralizzatore dei primi tempi, lo ha esposto ai lazzi e ai pernacchi di un mondo del calcio che da sempre vive di spese pazze. In realtà Lotito, dopo aver risanato la Lazio, e avendo ottenuto i primi riscontri positivi sul campo, ha gradualmente alzato il livello delle spese, pur badando sempre all’equilibrio.

Così in biancoceleste sono arrivati i campioni, e ci si è sottratti al balletto delle plusvalenze di comodo che abbelliscono i bilanci senza apportare liquidità. Poche cessioni, tutte a caro prezzo, qualche inciampo, tipo le fughe dei Pandev e dei De Vrij, alcune cantonate di mercato, dai Makinwa ai Muriqi. Un percorso di miglioramento di fondo, graduale e costante.

Le guerre di potere interne al calcio lo hanno esposto al tiro incrociato di rivali e media. Lotito ha avuto un impatto importante nella Lega di Serie A, conducendo le sue battaglie anche arrivando ad aprire strade nuove e sostenendo e provocando cambiamenti profondi nelle strategie delle società di serie A. Un esempio: la rateizzazione del debito verso l’Erario che ha consentito alla Lazio di non fallire e allo Stato di recuperare cifre importanti che altrimenti sarebbero andate perdute per la collettività.

Un accordo apparentemente irraggiungibile, se si pensa che riservarlo a tutte le società operanti in qualunque settore dell’economia provocherebbe sconquassi: nessuno pagherebbe più le tasse, confidando in una transazione a babbo morto. Lotito ottenne in punta di diritto l’agevolazione, che subito dopo venne, di fatto, abolita. Un esempio della sua visione e della capacità di raggiungere un obiettivo anche percorrendo strade nuove, mai frequentate da altri.

Il suo difetto? Se ne vanta. Ostenta le lauree. Non si preoccupa delle buone maniere. Ma ha delle virtù che andrebbero considerate di più. Per esempio, il coraggio. La determinazione con cui ha resistito a una contestazione dell’ambiente selvaggia, minacciosa, senza quartiere, sostenuta  e sospinta anche dalla stampa locale, che ha spaccato una tifoseria storicamente attaccatissima al club, fatta di numeri non elevatissimi ma costanti e fedeli.

Una resistenza che risalta, se messa a confronto con le vicende torbide che hanno visto negli anni molte grandi società dover rispondere di imbarazzanti connivenze con ambienti della tifoseria non proprio presentabili.

Insomma, il modello Lotito è: col bilancio sano e una gestione oculata si vince.
Lasciando che i tecnici lavorino (in 17 anni appena 4 esoneri, 8 allenatori in tutto, tre direttori sportivi, 4 con lui) e che i calciatori crescano nella continuità.
Radu, Lulic, Parolo, Luis Alberto, Milinkovic-Savic, Immobile, e prima ancora altri come Biava, Mauri, Rocchi, Klose, Ledesma, Candreva.
Storie non da prima pagina, forse.
Ma che hanno portato in bacheca 6 trofei.
E una situazione societaria a oggi esemplare.

Un esempio da seguire, insomma.
Ma chissà perché nessuno consiglia un modello Lazio come soluzione dei problemi del calcio. Altro che SuperLega…

 

Fine della corsa: Firenze

Una doppietta del campioncino emergente Vlahovic stende la Lazio a Firenze. Sconfitta ineccepibile, maturata dopo un buon inizio di gara dei biancocelesti, che sembrano decisi a saltare l’ostacolo: solo la vittoria poteva mantenere vive le speranze di agganciare un posto-Champions. I biancocelesti hanno provato a prendere in mano la gara e ci sono riusciti, a tratti, fin quando un’azione improvvisa al 32′ di Castrovilli, scaturita da un rimpallo, non ha lanciato Biraghi verso la linea di fondo. Per il terzino è stato facile trovare Vlahovic, a un passo dalla porta, per il più semplice dei gol.

E il gol ha cambiato la partita: la Lazio si è disunita, la Fiorentina ha trovato coraggio. Lo slancio dei biancocelesti si è definitivamente spento nella ripresa, risoltasi in uno sterile fraseggio biancoceleste, continuamente interrotto da falli (soprattutto fatti), perdite di tempo, trame d’attacco inconcludenti, con una Fiorentina capace di difendersi con ordine e di ripartire, appoggiandosi al suo centravanti, con un prezioso lavoro di Ribery.
Nel finale di gara è arrivato il raddoppio, ancora di Vlahovic, che ha colpito di testa indisturbato, incornando i sogni europei della Lazio.

Una gara che probabilmente chiude la stagione biancoceleste, lasciando spazio all’ultima speranza: se vincendo tutte le gare restanti la Lazio poteva avere la certezza di entrare nei 4, la sconfitta di Firenze potrebbe rendere inutile un filotto di vittorie nelle restanti partite, comunque improbabile e difficilissimo. Resta una stagione da chiudere, con un derby da giocare, prima del bilancio finale.

Inzaghi, ancora in posizione incerta, deciderà il proprio destino. Resta l’amaro in bocca per gli errori di mercato: la Lazio ha speso molto, senza riuscire a rinforzare una squadra che l’anno scorso aveva stupito tutti ma aveva bisogno di rinforzi per sostenere la Champions League e ritentare l’assalto alle posizioni di vertice. I nuovi hanno fallito tutti, a parte Reina, che comunque nel finale di stagione incassa troppi gol apparentemente evitabili.

Non si può non puntare il dito sulla stagione più che negativa dei due rinforzi più costosi e importanti: Muriqi e Fares hanno deluso profondamente. Pereira e Hoedt sembrano arrivati come scelte, non ponderate, dell’ultimo minuto, Akpa Akpro si è aggregato dopo un ritiro incoraggiante, Escalante non ha mostrato di poter sostituire Leiva degnamente, anche perché è stato meno sano di lui. L’operazione Musacchio, infine, è parsa un inutile riempitivo, nemmeno troppo gradito dal mister.

Così la squadra che aveva finito esausta la scorsa stagione ha affrontato, senza rinforzi, quella nuova, durante la quali ci sono stati i guai da covid e gli infortuni che hanno appiedato Luis Felipe, la guarigione difficile di Lulic, la stagione in calando di Immobile, la scarsa vena di Correa, tornato ai suoi livelli solo alla fine. In più le condizioni mai ottimali di Caicedo e la flessione dello stesso Acerbi.

La squadra, su queste basi, ha lottato, profondendo tutte le energie in una lunga e infruttuosa rincorsa, dopo aver perso punti importanti nel girone d’andata. Finisce sesta, se non ci saranno cambiamenti, e si tratta di una posizione in classifica sostanzialmente giusta, in un’annata in cui la lotta per le prime quattro posizioni è stata serratissima, con protagoniste tutte di alto livello.

Per i biancocelesti, oltre a un finale di stagione da onorare e un derby da vincere, si profila un mercato difficile. Anche alla luce delle scelte fatte l’anno scorso, che si sono rivelate, purtroppo, disastrose.

 

L’ipocrisia dei media e la nuova Coppa Italia

La Lega ha deciso: la Coppa Italia cambia formula e sarà riservata ai club di Serie A e Serie B. Se ne accorcia la durata e si punta a razionalizzare il calendario, che è inzeppato di eventi e subirà ulteriori compressioni con le nuove formule previste per le Coppe Internazionali. Si parla anche (finalmente) di una serie A a 18 squadre, che renderebbe il campionato più competitivo.

Curiosa la reazione/levata di scudi di media e social, che hanno rinfacciato la decisione a chi ha avversato, Ceferin in testa, il progetto della SuperLega, che voleva soppiantare la Champions League. Non se ne comprende il motivo, visto che la decisione è stata presa da un’assemblea di Lega che include i tre club dissidenti, quindi se ne rinfaccia il contenuto anche a chi non era certo contrario al progetto. In più, se ne evidenzia la chiusura al calcio minore, tacendo che un Coppa a inviti di sicuro premia meno il merito rispetto a un torneo riservato alle partecipanti a tornei che prevedono la possibilità di retrocedere, salire di grado, fallire, eccetera.

La SuperLega era (è) un progetto dove il più potente comanda, e configura un circolo ristretto di superclub basato su parametri che hanno a che fare principalmente col potere e la ricchezza. Forse per questo piace a tifosi e media italiani, sempre ossequienti e pronti a correre in soccorso del potente di turno.

I sondaggi usciti giorni fa sui giornali parlavano chiaro: i tifosi più favorevoli al megaevento erano quelli di Milan, Juventus e Inter. Cioè i tre club che già in Italia godono di una copertura mediatica che prescinde dai risultati sul campo, una narrazione fatta a misura di cliente che non considera il valore in campo ma solo il potenziale ritorno di pubblico. Un’Atalanta (una Lazio), insomma, non saranno mai messe davanti a uno dei tre superclub nazionali in una gerarchia delle notizie, salvo nell’eccezionale caso contingente di una vittoria eclatante. Discorso a parte merita, poi, la bolla mediatica giallorossa, che colloca la Roma in una posizione intermedia tra le tre grandi e le altre.

Il calcio italiano, insomma, va avanti col suo solito solipsismo: se il campo nega, eretico, la gerarchia predefinita, lo fa per caso, e non è necessario preoccuparsene oltremisura, perché la realtà turbata dai fatti tornerà, in assenza di altri fatti, allo status quo predefinito a tavolino.

Il che è la perfetta sintesi dello spirito del circolo di 15 eletti che ne invitano altri 5, una volta l’anno, a fare da comparse per un evento milionario. A proposito: il ritorno economico della Coppa Italia è l’uno per mille di quello della SuperLega…

Resta il lustro dato dalla vittoria nella competizione della Coppa Italia, che oggi pare diventato secondario rispetto a un piazzamento che consente di portare a casa soldi per alimentare il business. Quei soldi che il circolo dei ricchi vorrebbe gestire senza intermediari.

Il calcio è la metafora della vita, dice sempre qualcuno: l’assenza di mobilità sociale, il solco che divide ricchi che fanno follie da (pseudo)poveri che non riescono più a mandare in campo l’oggetto della passione dei tifosi, che si allarga sempre di più, sembra proprio, a guardar bene, la rappresentazione dello squilibrio globale.

 

La lotta continua

Pomeriggio quasi tranquillo all’Olimpico. Lazio in grande condizione, che parte all’attacco e non molla il piede dall’acceleratore, costruendo gol, occasioni, giocate a profusione. Tutti sul pezzo, tutti ispirati, tutti insieme a lottare per l’obiettivo: i tre punti e la rincorsa all’Europa. Ma c’è qualcosa, come sempre, che lascia perplessi: mentre Perin sventava i tentativi dei laziali, col Genoa che stentava a sottrarsi alla forza dei biancocelesti, covava il seme della distrazione fatale. Al riposo su un 2-0 striminzito, per quanto gioco s’era visto, la Lazio concede subito un (auto)gol con Marusic. Riparte di slancio, ne segna altri due, ne sbaglia di poco altri, fin quando, nel giro di due minuti, concede prima un rigore per un intervento falloso, fortuito quanto inutile, di Cataldi su Badelj. Poi, un minuto dopo la realizzazione di Scamacca, capitola ancora su tiro di Shomurodov. Così si complica una partita dominata, senza storia alcuna. Almeno sulla carta, perché le occasioni, dopo il 4-3, sono ancora della Lazio, che festeggia l’undicesima vittoria consecutiva all’Olimpico, miglior serie nella sua storia, e si mette alla finestra, aspettando gli altri risultati del pomeriggio. Due sono favorevolissimi: i pareggi di Atalanta e Napoli alimentano le speranze biancocelesti, fondate, comunque, sulla necessità di vincere tutte le partite restanti, a meno di improbabili brusche frenate delle concorrenti.
Detto delle sofferenze (davvero poche) ci godiamo la splendida condizione di Correa, altri due gol oggi, un Immobile in ottima forma, i soliti Milinkovic, Marusic, Lazzari, un Hoedt solido a sostituire lo squalificato Acerbi, e poi la conferma della forma crescente di Lulic.
Prossima fermata, Firenze. La corsa continua.

Il ritorno di Senad

Quando esordì molti laziali dubitarono di lui. Niente di strano, siamo abituati così, diremmo sipperò pure a Leo Messi. In quella partita, a Milano, contro il Milan, pareggiammo 2-2, evento raro a San Siro, dove di norma si perdeva. L’attrazione era Cissé, mattatore della gara, in coppia con Klose. La Lazio di Reja, in doppio vantaggio, si fece raggiungere e sprecò una grande occasione. Senad entrò negli ultimi dieci minuti e combinò qualche pasticcio, mostrando però chiare doti da cursore.

Dieci anni dopo ci siamo resi conto di quanto Senad ci abbia dato quando s’è fermato, per un brutto infortunio, e sembrava non poter più rientrare. La sua assenza è stata una delle principali ragioni dell’incubo post-lockdown. Non tanto e non solo per l’apporto in campo, quanto per la sua presenza, in campo e nello spogliatoio, che è uno dei segreti della Lazio.

Lulic, con Radu e Parolo, è il custode antico della Lazio di Simone Inzaghi. Lo si è rivisto al meglio nello scorcio iniziale della serata trionfale col Milan. Una fiammata durata poco, che ci ha detto, però, che il vecchio leone può ancora ruggire, accompagnando la squadra a tentare una nuova impresa. La conquista di un posto in Champions League, al termine di una stagione massacrante e piena di contrarietà. Sarebbe un risultato eccezionale.

Il bosniaco, protagonista di tutti i successi biancocelesti degli ultimi anni, sembra dare garanzie maggiori rispetto all’incerto Fares, che non si è ancora espresso secondo le sue possibilità. L’esperienza e la serenità di Lulic, oltre alle sue qualità di giocatore, potrebbero essere un’arma in più. Soprattutto nel derby, dove il 71′ agita ancora il sonno dei giallorossi.

A fine stagione si deciderà. Lulic non vuole smettere, ora che ha ritrovato la via del prato verde. La Lazio potrebbe avere ancora bisogno di lui, 35 anni compiuti a gennaio, 366 maglie biancocelesti alle spalle, con 33 gol più uno.

Quello che lo rende indissolubilmente legato ai nostri colori.
Al settantunesimo, la maglia numero diciannove.
Da Mostar, cresciuto con la guerra in casa.
Arrivato per imparare, diventato un simbolo.