Zaccagnate di mercato

Lotito e Tare ph: Fornelli/Keypress

Si è chiuso il mercato estivo col solito tormentone in salsa biancoceleste: l’esterno offensivo richiesto da Sarri è arrivato sul filo di lana, anche se Zaccagni, il prescelto, non è del ruolo al 100%, ma è comunque un eclettico, che può tornare buono anche in altre posizioni. Sfumata all’ultimo la trattativa per Kostic, con retroscena comici: la storia dell’email sbagliata, comunque la si guardi, rivela un atteggiamento quantomeno troppo rilassato rispetto a tempi e scadenze del mercato e una certa superficialità nella gestione della trattativa: la chiusura del club tedesco, legittima, avrebbe potuto, conosciuta per tempo, garantire spazi e margini di manovra diversi sul fronte Zaccagni o su altri alternativi.

Così si esce bestemmiando da una sessione che poi, di fatto, ha accresciuto la qualità e la disponibilità della rosa, anche se non ha posto rimedio ad alcune mancanze, soprattutto nell’organico difensivo, che potrebbero creare problemi con la massa di impegni che attende la squadra, soprattutto nella parte iniziale di stagione.
Potenza e guasti del proverbiale procrastinare biancoceleste.

La Lazio sembra in grado di competere su tutti i fronti, ma solo se vince alcune scommesse: il recupero di Felipe Anderson al calcio di alto livello, la tenuta di Pedro nell’arco della stagione, l’adattamento di Lazzari al ruolo di terzino-terzino, l’inserimento di Zaccagni e Basic, la tenuta di una difesa un po’ fragile numericamente, i dubbi sulla qualità residua di Reina come portiere. Forse sono troppe variabili, ma c’è tempo per mettere a punto un motore che sembra potenzialmente in grado di fare faville.

Per il momento la squadra può accontentarsi del ruolo di mina vagante del campionato, in attesa di sapere se c’è modo  di aspirare a qualcosa di più, magari nelle Coppe. Sarri predica divertimento: proprio la ricetta che Mancini ha usato per prendersi l’Europeo.
E in tempi di pandemia divertirsi mica è poco…

Caro Hysaj, la Lazio non è fascista

Uno non fa in tempo a entusiasmarsi per la sarreide, il ritorno di Felipe Anderson e le magnifiche sorti e progressive della squadra che sta nascendo, che torna il grugnito dei fascisti che infestano la curva della Lazio.

I fatti si conoscono: Hysaj ha cantato Bella ciao nel ritualino social dei giocatori della Lazio. Ciascuno canta una canzone. Lui quella. Che l’abbia cantata perché gli piace, per far riferimento a una serie tv o a un contenuto storico/politico, fatti suoi. Si tratta di una canzone popolare conosciuta in tutto il mondo, non si vede quale sia il problema.

Insorge, però, le vene del collo gonfie, il fascistone curvarolo: questa canzone non s’ha da cantare. E tanti a porsi la questione dell’opportunità: ma nun potevi cantanne n’antra? No.
L’aggressione subita e la discussione seguita dimostrano ancora una volta un punto di vista: di certi comportamenti sembra ci si debba giustificare.

Altri, invece, viaggiano tranquilli e arrivano a destinazione senza che si sollevi un ma. Così diventa lecito mettere sotto accusa (e intimidire, insultare, minacciare) un ragazzo solo perché ha cantato una canzone cara ai partigiani. Un inno di libertà cantato da quelli che hanno lottato contro il fascismo: c’erano tutti, comunisti, socialisti, cattolici, azionisti, monarchici eccetera.

La società costretta a fare due comunicati, uno soft prima dello striscione minaccioso degli ultras, uno più duro dopo, sempre arrovellato di arzigogoli che decorano un concetto che si potrebbe rendere con una mezza riga scarna e definitiva: la Lazio non è fascista.
Ma viva la Lazio, e grazie per lo sforzo fatto.

La reazione veemente e generale dei tifosi di buona volontà, di sinistra, di centro e di destra, segna un piccolo cambiamento che arriva anche sulla maggior parte dei media: si fanno i distinguo, si parla di frange estremiste e oltranziste (basterebbe parlare di frange fasciste), si capisce, finalmente, che la Lazio di queste manifestazioni odiose è ostaggio, che le subisce e ne paga i danni. Un concetto che gridiamo in tanti da più di un quarto di secolo, senza mai stancarci, e che dai e dai forse comincia a passare.

I tifosi della Lazio sono centinaia di migliaia, gli ultras nazifascisti qualche decina.
In cerca di una visibilità che manca, per tutte le frange ultras interessate, da quasi un anno e mezzo. Questa storia gli ha restituito le pagine dei giornali, ma anche, per quello che vale, la rabbia e la disapprovazione della stragrande maggioranza dei tifosi.
Quelli tenuti in ostaggio, la domenica, allo stadio, dal solito gruppo violento e prevaricatore.

Una storia semplice da raccontare, anche se le troppe socialscimmie attive su questi temi si riempiono la bocca di stupide battute tifose. Chiunque segua le vicende del calcio conosce le dinamiche che hanno portato alla colonizzazione delle curve da parte di gruppi spesso legati all’estrema destra, che sovente trovano spazio sui media per fatti  di cronaca che con lo sport non hanno niente a che spartire.

Che tifare per una squadra non c’entri niente con la politica è pacifico.
Che un tifoso si debba sentire in obbligo di dissociarsi da comportamenti da codice penale di qualche esaltato è una ridicolaggine tutta nostra.

Possono mai porsi una questione del genere un Alessandro Portelli, un Edoardo Albinati, un Riccardo Cucchi? No. E perché dovrebbe sentirsi in obbligo di farlo uno qualunque dei tantissimi laziali antifascisti?

Salutiamo, perciò, la ritrovata sensibilità dei media, auspicando che la Società faccia l’ultimo sforzo per comprendere che c’è differenza tra lo stigmatizzare genericamente certi atti e condannarne esplicitamente la matrice politica fascista.

Una condanna implicita non equivale a un grido, forte e chiaro, che dica che la Lazio rifiuta ogni accostamento al fascismo. Per Maestrelli partigiano, per Bitetti che il Duce lo consegnò ai partigiani, e per tutti i laziali che si riconoscono nella Costituzione.

 

 

 

L’importanza di essere Immobile – Lezione di calcio per principianti e analfabeti funzionali

di Giacomo Tortorici
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Subito dopo l’impeccabile vittoria degli Azzurri col Belgio, mi è toccato ascoltare e leggere le immancabili critiche a Immobile, critiche spiegabili esclusivamente con una scarsa conoscenza del gioco del pallone o con la malafede.
Simili cose in Italia soprattutto le abbiamo dovute leggere anche nei confronti di Cristiano Ronaldo (uscito col suo Portogallo) e che è attualmente il capocannoniere della manifestazione, dello stesso Lukaku che, seppur limitato al massimo dai superbi Bonucci e Chiellini, è stato comunque pericoloso e ha segnato su rigore. E, se ancora si pensa che in queste grandi manifestazioni, il centravanti forte è quello che segna più goal, è evidente che siamo rimasti al meraviglioso 1982. Dobbiamo però prendere atto che il calcio è cambiato, che i grandi numeri i centravanti li fanno soprattutto nelle squadre di club dove c’è un gioco atto ad esaltare le loro caratteristiche, piuttosto che nelle Nazionali dove si deve fare di necessità virtù. Che poi è esattamente quello che fa Immobile in Azzurro.
Certo la partita con il Belgio non è stata la sua migliore, ma la sufficienza, a differenza di quello che s’è letto e sentito, se l’è ampiamente meritata, almeno a parere mio e di Roberto Mancini. E ora vi spiego perché, anche grazie ad un servizio di Sky nel quale hanno fatto sentire le parole che il Mister diceva al centravanti della Nazionale: “Non preoccuparti Ciro, stai lì, stai lì!”. Il Belgio giocava infatti con tre difensori centrali e due ali a tutto campo, contro i tre attaccanti italiani: difensivamente situazione ideale, in teoria. Nella pratica, siccome Immobile, a differenza di quanto scrivono i nostri Mister da social e giornalisti, è forte forte, su di lui dovevano essercene sempre almeno due, per questo il Mister non voleva che facesse il suo generoso lavoro di ripiegamento difensivo, ma doveva essere lì, in modo da tenerne bloccati due e mettere in superiorità numerica Chiesa e soprattutto Insigne e i centrocampisti quando avanzavano in mezzo al campo. Esattamente lo svolgimento dell’azione dei due goal. Sul primo tra l’altro Immobile si era guadagnato il rigore, per questo è rimasto a terra per poi risorgere come Lazzaro, al goal di Barella, per indirizzare anche un po’ il lavoro del Var. Insomma in una delle sue peggiori partite in Nazionale dove vanta uno score di 15 goal in 50 partite (pochissime giocate per intero), Immobile ha partecipato all’azione di entrambi i goal, portandosi via i difensori, aveva rimediato un rigore e aveva rubato il pallone a Courtois, in una maniera che solo un arbitraggio molto rigido ha potuto considerare irregolare. Questo vede chi conosce il calcio.
Gli altri probabilmente avranno scritto che l’Italia del 2006 ha vinto i mondiali senza centravanti, perché Luca Toni ha segnato solo in un partita (doppietta contro l’Ucraina) o Pippo Inzaghi solo un goal, o forse non l’avranno scritto, perché non hanno lo stigma di Immobile: quello di essere il centravanti di un club che è dal 1927 che non si adegua (letteralmente) al Regime, anche comunicativo.
Eppure basterebbe poco: un po’ di deontologia da parte della stampa e da parte di tutti un friccichetto di dignità. Ma lo so: #magnotranquillo

Dissertazioni pallonare ( per chi non ama il calcio)

di Giacomo Tortorici
https://www.facebook.com/tortorix

Dicono che sia lo sport più amato al mondo perché è una metafora della vita, non lo so. Forse è proprio la vita a svolgersi su quel rettangolo verde e tutto quello che ci sta intorno.
E oggi Italia – Svizzera ci dà modo di ragionare sulla gestione del gruppo e dell’individuo nel gruppo stesso, argomento affascinante sia per chi, come il sottoscritto, si trova a dirigere un po’ di persone, che per chi si trova invece a far parte di team di lavoro, magari con una personalità spiccata.
L’attuale allenatore dell’Italia, Roberto Mancini, da giocatore era proprio così: calciatore fantastico dalla personalità spiccata che però in Nazionale non ha mai reso secondo le aspettative.
Agli Europei dell’88 partì titolare in una Nazionale simpatia, molto simile nella freschezza a questa, segnò anche nella prima partita, ma poi gli fu preferito l’esperto Altobelli. A Italia ’90 non giocò nemmeno un minuto.
Oggi aveva l’opportunità di sostituire sul 2-0 un Ciro Immobile stanco dopo una partita generosa, ma priva di goal, eppure ha preferito tenerlo in campo. Poteva mettere Belotti, grande e grosso, abile a tenere palla, far esordire Giacomo Raspadori pronto a esplodere la sua gioventù e invece ha tenuto in campo il bomber di Torre Annunziata. Che l’ha ripagato, timbrando all’ottantanovesimo il goal che ha sprangato la partita.
L’ha fatto perché nella gestione del gruppo, saper coccolare, senza viziarlo ovviamente, il bomber è fondamentale, perché con questa squadra l’Europeo puoi vincerlo solo con i suoi goal e tu sai che più segna, più prende fiducia, più può risegnare nelle partite che contano.
Fiducia, continuità, ma anche la capacità di tenere tutti gli altri attaccanti pronti a sostituirlo: dura la vita dell’allenatore, ma anche del Direttore in fondo. E facilissimo sbagliare.
Ma oggi è stato fondamentale, a mio parere, anche la coscienza della propria storia, veramente magistra vitae (ludique aggiungerei con un orrido latinorum), cercando di offrire a Immobile quelle opportunità che Mancini non ha avuto o forse non ha saputo sfruttare.
C’è sempre insomma da imparare e da insegnare. Ma certo lo so: #magnotranquillo

Il giorno in cui smisi di fumare

di Romolo Giacani

Roma, maggio 2026.
Ti ricordi quando mi dicevano “perché ti sei fissato con questa difesa a 4! Cambia ogni tanto!” Oppure quelli pronti a criticare “perché sostituisci sempre chi è ammonito?” e quegli altri invece che mi rimproveravano qualche acquisto “fai giocare sempre gli stessi, fai qualche cambio ogni tanto”.

Meno male che sono andato dritto per la mia strada. Perché a me non mi basta vincere, a vincere sono buoni tutti. Mi piacciono le iperboli, le idee che viaggiano sulle gambe degli uomini e quando il pallone disegna sul campo quello che hai per la testa, mi sembra di essere dentro una poesia di Bukowsky.

E’ stata dura, ma non mi sono arreso, neanche quando mi rinfacciavano il credo politico. Che poi pure Maestrelli era di sinistra, ma questi son pischelli, magari neanche sanno chi è Maestrelli. Certo forse pure io potevo evitare di andare sotto la curva con il pugno alzato, ma ero troppo felice, avevamo appena vinto il derby.

Contro quell’antipatico di portoghese poi, giusto in tempo prima che lo cacciassero…che gusto! Come questa sigaretta. La devo assaporare per bene, fino al filtro. Quando uno fa una promessa è quella, anche se la fai esclusivamente con te stesso: avevo detto, se vinco lo scudetto qui basta, smetto di fumare.

Che mi diceva la testa! Forse non ci credevo neanche io.
Oppure invece proprio al contrario: ero sicuro! Ed ero anche sicuro che quello sarebbe stato il miglior modo di smettere. D’altra parte i numeri erano dalla nostra parte: 74, 00, 26 succede ogni venticinque anni.
Adesso però è ora.
Ultimi 90 minuti, andiamo a scrivere la storia.

Una sigaretta, la Lazio e il sarrismo

In una città dove per uno che si dichiara Laziale, ce ne sono più di tre che si dichiarano di #inquelli, nonostante poi le presenze allo Stadio e gli abbonamenti alla TV propongano un rapporto di 1 a 1,3, non c’è niente che mi faccia sentire me stesso e divertirmi come essere Laziale, contro la narrazione dominante, contro i media, contro tutto, tutti e Totti (fino a quando c’è stato).

Ogni Laziale è diverso, non ci hanno dato una squadra da tifare. È lei che, a volte imprevedibilmente, ci ha scelto. Una sola cosa accomuna tutti noi: siamo disincantati, ipercritici, soprattutto verso noi stessi. Mentre il motto del tifoso romanista è: “la Roma non si discute, si ama!”, il Laziale acritico non esiste.
Per questo gli ultimi 14 giorni, dall’abbandono di Inzaghi all’odierno ingaggio di Sarri, sono stati un concentrato di lazialità, che si è espressa, non essendoci il campionato, soprattutto sui social. Dopo la dipartita del tecnico spiacentino, abbiamo iniziato a prefigurare l’arrivo di chiunque potessimo già criticare.
Appena ha iniziato a circolare poi il nome di Sarri, uno che oltre a un curriculum di tutto rispetto, è famoso per essere un personaggio fuori le righe e per la bellezza, a volte superflua, del gioco delle sue squadre, è iniziato il delirio social.
Sarri fuma e i tifosi laziali, dai più giovani e scalmanati, ad austeri professori universitari, fino al sottoscritto hanno iniziato a riempire i social di emoticon con la sigaretta. E basta. Niente parole, solo emoticon: bastava che chiunque parlasse di qualcosa che avesse a che fare con la Lazio e una serie di matti metteva le sigarette.
Sembrava impossibile, la trattativa non si sbloccava, il Presidente Lotito non aveva mai puntato su qualcuno di già affermato e noi mettevamo sigarette, divertendoci in ogni caso.
Oggi l’account ufficiale della Lazio, proprio come noi tifosi, fregandosene del politically correct, anteponendo il gusto irresistibile per noi romani dell’ironia, all’ipocrita senso dell’opportunità annuncia l’arrivo di Sarri con un’emoticon: la sigaretta.
E poi a stretto giro, per riaffermare ancora una volta l’inestricabile incrocio di ironia, amore per il bello e per i guai che ci contraddistingue, carica un video su Sarrismo e Lazialità. Un minuto di noi: un quadro impazzito con Gandhi, Martin Luther King, Gascoigne, Paolo Di Canio, la Curva Nord, il tifo, l’arte, la bellezza e infine Sarri.
E probabilmente non vinceremo niente, ma ci saremo stati e comunque ci siamo già divertiti, contro tutto e contro tutti, abbiamo acceso la miccia con una sigaretta. Nessuno ci vorrà o ci potrà capire. Lo so: #magnotranquillo

Lazio-Milan, ultima chiamata per la Champions League

La sconfitta di Napoli ci ha ricacciato indietro, quando sembravamo rientrati in gruppo. Così stasera abbiamo un solo risultato utile, in chiave-Champions: la vittoria.
I più recenti precedenti non sono incoraggianti: lo 0-3 dello scorso anno chiuse definitivamente il sogno scudetto, il 2-3 beffardo dell’andata vanificò una rimonta eccezionale e una grande prestazione. Il racconto, perfetto, della stagione della Lazio.

Stasera dentro o fuori: il Milan, dopo un grande 2020, stenta, frena e rallenta, nella mischia tumultuosa della zona Champions sembra, insieme alla Juventus, la squadra più in difficoltà, ma gestisce un gruzzolo di punti che gli consente, senza eccessi, di gestire la partita anche accettando un pareggio. Per la Lazio serve la vittoria, per mantenere viva la stagione, altrimenti ci si rassegnerà a portare a casa una partecipazione europea minore, che sia EL o Conference League.

All’Olimpico contro i rossoneri la vittoria manca dal 2017. Per i biancocelesti sarebbe l’occasione per raddrizzare un poco la classifica, in attesa di sapere se e quando di recupererà la gara col Torino. Per come si sono messe le cose la Lazio è chiamata a vincere sempre: rientrare nei 4 sarà difficilissimo, vista la condizione di Atalanta e Napoli e il peso di Milan e Juventus. La Lazio, però, non molla facilmente, e di sicuro proverà a rientrare. Per mollare c’è tempo. Decisiva sarà la ritrovata vena realizzativa di Immobile: se Ciro segna, tutto diventa più facile.

 

In difesa delle Fredde Serate a Stoke

Questo blog aderisce e sostiene l’iniziativa.
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IN DIFESA DELLE FREDDE SERATE A STOKE
Nell’affresco noi siamo le figure di sfondo.

Siamo il colore, le note di accompagnamento e il sale di quello che non è solo uno sport, ma una festa collettiva. Siamo tifose e tifosi di calcio.

Abbiamo vissuto con sgomento la proposta di una SuperLega chiusa, fortezza delle potenze del calcio europeo, riunite all’unico scopo di aumentare i ricavi separandosi dalla fastidiosa zavorra del merito sportivo.

Nonostante questa vergognosa proposta sembri oggi tramontare prima ancora di nascere a causa della stessa frettolosità con cui è stata annunciata, non possiamo nasconderci che le cause da cui nasce non muoiono con essa e restano minacciosamente in campo.

Far finta che non ci siano, che il pericolo sia scampato, significherebbe solo rimandare a domani quel che poteva capitare oggi. Il momento di farsi sentire è adesso, il tempo del cambiamento è il presente.

Il calcio europeo ha accumulato debiti spropositati, è sempre più dipendente dai diritti televisivi e da plusvalenze a cui rispondere con soluzioni creative per bilanci dai piedi d’argilla. Le necessità delle grandi squadre si traducono in una concentrazione delle risorse che erode il merito sportivo a favore dei ricavi e delle possibilità di marketing, lasciando le realtà medio-piccole a raccogliere le briciole e a dipendere dai trasferimenti a cascata erogati dai vertici.

Pensiamo che delle soluzioni siano praticabili fin da subito, guardando alle esperienze migliori già in essere nel nostro continente. Il calcio tedesco, di certo non una realtà di secondo piano, è riuscito a combinare competitività e distribuzione delle risorse, partecipazione dei tifosi e organizzazione sportiva.
Se questo modello è riuscito a conseguire risultati senza per questo trattare i tifosi come clienti e le piccole squadre come invitate a tavola dalle grandi proprietarie del giocattolo, non si capisce perché non potrebbe essere assunto anche nel contesto italiano, attraversato da una crisi profonda, negli stadi ma non solo.

Per questo pensiamo che occorra perseguire:
• una distribuzione più equa dei diritti tv, aumentando la quota fissa e quella legata a meriti sportivi
• forme di partecipazione dei tifosi nelle società sul modello 50+1 tedesco, grazie a cui i tifosi hanno potuto e possono esercitare un controllo sulle politiche dei prezzi, l’esperienza di stadio e sulle principali scelte del management, senza per questo inficiare l’efficienza organizzativa dei club
• il rafforzamento e l’applicazione certa degli strumenti di controllo sui conti, vista la diretta ed evidente correlazione tra possibilità economiche e competitività sportiva
Questo appello è rivolto a tutte le tifoserie, senza alcuna distinzione di categoria o di rivalità.

Divise sugli spalti, unite in questa battaglia che riguarda tutte.
Facciamo in modo che queste parole d’ordine o altre che possano aggiungersi diventino patrimonio comune. Apriamo uno spazio di discussione affinché la riforma del calcio non avvenga ancora una volta dall’alto, ma parta da chi ha reso il calcio la festa collettiva in cui ci riconosciamo.

In Inghilterra è divenuta celebre dalle parole di un commentatore britannico su Messi l’espressione sulle “fredde serate a Stoke”, in riferimento alle squadre che vincono sempre e alla capacità di farlo sui campi difficili. Senza quelle serate il calcio perde tutta la sua bellezza a favore di una satinatura fredda e senza passione.
Non ci basta veder fermata la Superlega. Adesso è il momento di riprenderci il calcio.

Lazio e Libertà APS
LazioNet
We Love Lazio

Il Napoli abbatte la Lazio. Ma nella partita che ha voluto l’arbitro

Napoli-Lazio, tra il terzo e il quarto minuto: Milinkovic-Savic rinvia la palla anticipando Manolas su azione di calcio d’angolo, alzando molto il piede, mentre il greco tentava di colpire la palla abbassando il capo. Sergej colpisce palla, poi finisce, forse, a contatto con il difensore. Si ribalta il fronte e Lazzari viene bloccato fallosamente da Hysay mentre si accinge ad affrontare, solo, Meret. L’arbitro non fischia niente, poi ascolta le comunicazioni del Var. Si pensa voglia decidere sul fallo subito da Lazzari. Ma va a  vedere il filmato che poi vedono tutti, il fotogramma è questo.

Chiaro come il sole. Ma Di Bello assegna il rigore al Napoli, ammonendo Milinkovic-Savic, il che azzera il rigore nettissimo a favore della Lazio, con l’espulsione dovuta alla chiara occasione da gol. Dal vantaggio numerico e nel risultato possibile allo svantaggio e all’ammonizione subita. Da lì comincia una partita che la Lazio gioca con volontà, non sorretta dalla fortuna: il Napoli fa un eurogol a ogni tiro, la Lazio coglie un palo con Correa e non trova modo di concretizzare una certa supremazia di gioco, fino al terzo gol subito. Poi si abbatte. Ha un sussulto sullo 0-4, segna un bel gol con Ciro, accorcia ancora con Milinkovic-Savic su punizione, ma becca l’ultima botta da Osimhen e finisce 5-2.

Un risultato che non ammette repliche, magari bugiardo nelle proporzioni. Ma è il risultato della seconda partita della serata: la prima, che Di Bello ha cancellato, forse sarebbe finita molto diversamente.

Il calcio si ribella alla SuperLega

Le immagini delle tifoserie in rivolta (almeno quelle inglesi: la sportività abita lì) sono la risposta più bella che il calcio riserva all’arroganza dei presidenti-cospiratori che hanno messo in piedi lo scintillante baraccone della Superlega, che s’avvia a morte ingloriosa a un paio di giorni dalla nascita notturna, manco fosse un fungo velenoso di quelli che ti dicono mangiami e poi muori.

L’arroganza di Florentino Perez, la doppiezza di Andrea Agnelli, la presunzione di chi credeva di poter incarnare un movimento che innerva l’intero pianeta, scompaiono miseramente davanti alla reazione veemente delle istituzioni del Football e al deciso rifiuto dei tifosi.

Così si scopre che i miliardi degli sponsor non sono tutto, mentre già si sapeva, quasi tutti, che se esiste il Real Madrid è per merito del calcio e non è affatto vero il contrario. Alla faccia dell’ingordigia di dodici club che di super hanno, molti, la bacheca, ma anche, tutti, l’indebitamento mostruoso, solo in parte dovuto ai rovesci imprevedibili della Pandemia.

Ingaggi folli, spese fuori controllo, voglia di far pagare il conto ai più piccoli, sostenendo che la salvezza del calcio passa per il ventre gonfio dei superclub che si sfidano in diretta a reti unificate in un superclasico a settimana.

Tutti insieme in una sporca dozzina che associa superblasonati e superindebitati, club di tradizione antica e di recente arricchimento. Stupiva lo stare fuori dal gruppo del PSG, che passa per essere il più posticcio dei grandi nomi del calcio europeo, ma esce benissimo dalla circostanza e si lancia verso l’agognata Coppa dalle Grandi Orecchie, che Eupalla non potrà negargli, per favorire le manacce avide del Real Madrid.

La reazione delle autorità, che hanno minacciato pesanti sanzioni, dei tifosi e degli altri club, soprattutto di quelli inglesi, ha dato il via alle defezioni: le sei inglesi, chi prima chi dopo, si stanno sfilando, facendo naufragare il progetto, accolte a braccia aperte dall’UEFA, figliolanza prodiga che lascia le altre allo scoperto.

Facile prevedere che l’afflosciarsi del progetto induca al dietro front tutte le altre, non foss’altro che per mettersi al riparo dall’ira funesta di Ceferin. Certo che più di qualcuno si meriterebbe una lezione di quelle sonore, soprattutto tra i tifosi che non hanno perso l’occasione per irridere chi dal megaprogetto restava fuori.

Beghe di secondo piano, tra social e calcio-pollaio, che possono trovare asilo giusto da noi, dove si sa che il fair play non ha mai attecchito. Se salta il banco lo sfottimento sarà un boomerang e i tre superclub gireranno accompagnati dalle sonore pernacchie degli altri, salvo consolarsi con i facili trofei e le regole aggirate a comando, in barba all’equità delle competizioni, e tutto il corollario del calcio malato che conosciamo.

La frontiera, però, in questo caso, è apparsa, bella solida: oltre un certo limite non è lecito andare. Se c’è un miliardo di asiatici che comprano questo prodotto non riuscendo a distinguere una Lazio da un Manchester City, c’è anche una realtà che rifiuta di riconoscersi in eventi creati ad arte ad uso e consumo del pubblico televisivo, e pretende di assistere a uno spettacolo sportivo dove chi sta in campo sia riconoscibile e riconducibile a una precisa geografia calcistica, scolpita nella pietra da più di un secolo di storia.

Non c’è Florentino Perez che tenga: i miliardi non comprano la voglia di correre dietro a un pallone dei bambini di tutto il mondo, che costituisce la base di un movimento che è vivo nei campetti di periferia, che racconta le palle di stracci delle favelas e le glorie dei Garrincha e dei Maradona che lì sono nati e cresciuti e che hanno scritto la storia del calcio, spesso sfidando la boria dei superricchi che credono di poter essere padroni di una passione.

Il calcio è di chi lo gioca. Il calcio è dei tifosi. C’è calcio oltre il Real Madrid, il Barcellona, la Juventus, l’Inter, il Milan. Una finale di Champions League tra Leicester e Porto sarà sempre un evento planetario. E i cinesi la guarderanno a miliardi, senza riuscire a distinguere l’una dall’altra, visto che hanno gli stessi colori. Se poi vai a chiedergli della Superlega e di Florentino Perez ti risponderanno: Flolentino chi?

La palla, intanto, rotolerà felice, al comando dei miliardi di piedi che la calceranno.