Il ritorno di Senad

Quando esordì molti laziali dubitarono di lui. Niente di strano, siamo abituati così, diremmo sipperò pure a Leo Messi. In quella partita, a Milano, contro il Milan, pareggiammo 2-2, evento raro a San Siro, dove di norma si perdeva. L’attrazione era Cissé, mattatore della gara, in coppia con Klose. La Lazio di Reja, in doppio vantaggio, si fece raggiungere e sprecò una grande occasione. Senad entrò negli ultimi dieci minuti e combinò qualche pasticcio, mostrando però chiare doti da cursore.

Dieci anni dopo ci siamo resi conto di quanto Senad ci abbia dato quando s’è fermato, per un brutto infortunio, e sembrava non poter più rientrare. La sua assenza è stata una delle principali ragioni dell’incubo post-lockdown. Non tanto e non solo per l’apporto in campo, quanto per la sua presenza, in campo e nello spogliatoio, che è uno dei segreti della Lazio.

Lulic, con Radu e Parolo, è il custode antico della Lazio di Simone Inzaghi. Lo si è rivisto al meglio nello scorcio iniziale della serata trionfale col Milan. Una fiammata durata poco, che ci ha detto, però, che il vecchio leone può ancora ruggire, accompagnando la squadra a tentare una nuova impresa. La conquista di un posto in Champions League, al termine di una stagione massacrante e piena di contrarietà. Sarebbe un risultato eccezionale.

Il bosniaco, protagonista di tutti i successi biancocelesti degli ultimi anni, sembra dare garanzie maggiori rispetto all’incerto Fares, che non si è ancora espresso secondo le sue possibilità. L’esperienza e la serenità di Lulic, oltre alle sue qualità di giocatore, potrebbero essere un’arma in più. Soprattutto nel derby, dove il 71′ agita ancora il sonno dei giallorossi.

A fine stagione si deciderà. Lulic non vuole smettere, ora che ha ritrovato la via del prato verde. La Lazio potrebbe avere ancora bisogno di lui, 35 anni compiuti a gennaio, 366 maglie biancocelesti alle spalle, con 33 gol più uno.

Quello che lo rende indissolubilmente legato ai nostri colori.
Al settantunesimo, la maglia numero diciannove.
Da Mostar, cresciuto con la guerra in casa.
Arrivato per imparare, diventato un simbolo.

 

Correa schianta il Milan

Spettacolo all’Olimpico: la Lazio aggredisce il Milan e lo lascia al tappeto, schiacciato da tre gol, un palo, una rete annullata per fuorigioco millimetrico di Lazzari, due grandi interventi di Donnarumma. Squadra ben messa in campo, micidiale nel ripartire in verticale: subito in vantaggio con l’incontenibile Tucu, i biancocelesti sfiorano più volte il raddoppio, per ripiegare nella seconda parte  del primo tempo, prima di lanciare verso il raddoppio Lazzari, più veloce del Var, che gli nega la gioia del raddoppio.

Nel secondo tempo la Lazio controlla agevolmente e si lancia in avanti di rimessa, segna di nuovo con lo scatenato Correa, un gol contestato per un intervento dubbio di Leiva su Calhanoglu a inizio azione che Orsato non sanziona, nonostante la segnalazione del Var, richiamando direttamente l’episodio di Napoli, quando il Var aveva dettato la decisione all’arbitro, che in campo aveva visto diversamente. Poi si prende la scena Immobile, dopo qualche errore: prima centra il palo con uno splendido pallonetto, poi chiude la contesa con un gran gol. 3-0, Lazio a 5 punti dalla Champions League con una partita da recuperare.

Restano 6 partite per giocarsi tutto. Con questo carattere niente è precluso.

Lazio-Milan, ultima chiamata per la Champions League

La sconfitta di Napoli ci ha ricacciato indietro, quando sembravamo rientrati in gruppo. Così stasera abbiamo un solo risultato utile, in chiave-Champions: la vittoria.
I più recenti precedenti non sono incoraggianti: lo 0-3 dello scorso anno chiuse definitivamente il sogno scudetto, il 2-3 beffardo dell’andata vanificò una rimonta eccezionale e una grande prestazione. Il racconto, perfetto, della stagione della Lazio.

Stasera dentro o fuori: il Milan, dopo un grande 2020, stenta, frena e rallenta, nella mischia tumultuosa della zona Champions sembra, insieme alla Juventus, la squadra più in difficoltà, ma gestisce un gruzzolo di punti che gli consente, senza eccessi, di gestire la partita anche accettando un pareggio. Per la Lazio serve la vittoria, per mantenere viva la stagione, altrimenti ci si rassegnerà a portare a casa una partecipazione europea minore, che sia EL o Conference League.

All’Olimpico contro i rossoneri la vittoria manca dal 2017. Per i biancocelesti sarebbe l’occasione per raddrizzare un poco la classifica, in attesa di sapere se e quando di recupererà la gara col Torino. Per come si sono messe le cose la Lazio è chiamata a vincere sempre: rientrare nei 4 sarà difficilissimo, vista la condizione di Atalanta e Napoli e il peso di Milan e Juventus. La Lazio, però, non molla facilmente, e di sicuro proverà a rientrare. Per mollare c’è tempo. Decisiva sarà la ritrovata vena realizzativa di Immobile: se Ciro segna, tutto diventa più facile.

 

In difesa delle Fredde Serate a Stoke

Questo blog aderisce e sostiene l’iniziativa.
https://www.facebook.com/nights.in.Stoke

IN DIFESA DELLE FREDDE SERATE A STOKE
Nell’affresco noi siamo le figure di sfondo.

Siamo il colore, le note di accompagnamento e il sale di quello che non è solo uno sport, ma una festa collettiva. Siamo tifose e tifosi di calcio.

Abbiamo vissuto con sgomento la proposta di una SuperLega chiusa, fortezza delle potenze del calcio europeo, riunite all’unico scopo di aumentare i ricavi separandosi dalla fastidiosa zavorra del merito sportivo.

Nonostante questa vergognosa proposta sembri oggi tramontare prima ancora di nascere a causa della stessa frettolosità con cui è stata annunciata, non possiamo nasconderci che le cause da cui nasce non muoiono con essa e restano minacciosamente in campo.

Far finta che non ci siano, che il pericolo sia scampato, significherebbe solo rimandare a domani quel che poteva capitare oggi. Il momento di farsi sentire è adesso, il tempo del cambiamento è il presente.

Il calcio europeo ha accumulato debiti spropositati, è sempre più dipendente dai diritti televisivi e da plusvalenze a cui rispondere con soluzioni creative per bilanci dai piedi d’argilla. Le necessità delle grandi squadre si traducono in una concentrazione delle risorse che erode il merito sportivo a favore dei ricavi e delle possibilità di marketing, lasciando le realtà medio-piccole a raccogliere le briciole e a dipendere dai trasferimenti a cascata erogati dai vertici.

Pensiamo che delle soluzioni siano praticabili fin da subito, guardando alle esperienze migliori già in essere nel nostro continente. Il calcio tedesco, di certo non una realtà di secondo piano, è riuscito a combinare competitività e distribuzione delle risorse, partecipazione dei tifosi e organizzazione sportiva.
Se questo modello è riuscito a conseguire risultati senza per questo trattare i tifosi come clienti e le piccole squadre come invitate a tavola dalle grandi proprietarie del giocattolo, non si capisce perché non potrebbe essere assunto anche nel contesto italiano, attraversato da una crisi profonda, negli stadi ma non solo.

Per questo pensiamo che occorra perseguire:
• una distribuzione più equa dei diritti tv, aumentando la quota fissa e quella legata a meriti sportivi
• forme di partecipazione dei tifosi nelle società sul modello 50+1 tedesco, grazie a cui i tifosi hanno potuto e possono esercitare un controllo sulle politiche dei prezzi, l’esperienza di stadio e sulle principali scelte del management, senza per questo inficiare l’efficienza organizzativa dei club
• il rafforzamento e l’applicazione certa degli strumenti di controllo sui conti, vista la diretta ed evidente correlazione tra possibilità economiche e competitività sportiva
Questo appello è rivolto a tutte le tifoserie, senza alcuna distinzione di categoria o di rivalità.

Divise sugli spalti, unite in questa battaglia che riguarda tutte.
Facciamo in modo che queste parole d’ordine o altre che possano aggiungersi diventino patrimonio comune. Apriamo uno spazio di discussione affinché la riforma del calcio non avvenga ancora una volta dall’alto, ma parta da chi ha reso il calcio la festa collettiva in cui ci riconosciamo.

In Inghilterra è divenuta celebre dalle parole di un commentatore britannico su Messi l’espressione sulle “fredde serate a Stoke”, in riferimento alle squadre che vincono sempre e alla capacità di farlo sui campi difficili. Senza quelle serate il calcio perde tutta la sua bellezza a favore di una satinatura fredda e senza passione.
Non ci basta veder fermata la Superlega. Adesso è il momento di riprenderci il calcio.

Lazio e Libertà APS
LazioNet
We Love Lazio

Champions sfumata? Forse, ma non è ancora finita

Non si placano le polemiche all’indomani della brutta sconfitta napoletana. Le decisioni di Di Bello hanno creato uno scenario che si è rivelato ideale per esaltare le qualità dei partenopei e i biancocelesti si sono dovuti inchinare a una superiorità  tecnica apparsa chiara, nella circostanza, anche se a tratti la Lazio ha girato a pieno regime. E in quei momenti si è visto che la squadra può competere, se al massimo, con il Napoli e con chiunque.

La decisione dell’arbitro pesa, ma non è un alibi sostenibile oltre il lecito. Resta il fatto che Di Bello non è intervenuto né sul rinvio di Milinkovic-Savic né sulla trattenuta di Hysay su Lazzari (vedi foto), che avrebbe richiesto la massima punizione e il cartellino rosso. Anche un intervento del Var a invalidare la decisione, perché l’azione è susseguente al presunto rigore su Manolas, sarebbe arrivato a decisione presa.

Così viene da pensare che senza Var la gara sarebbe passata oltre senza interventi arbitrali. E, se questo poteva essere il male minore per la Lazio, è comunque la prova ulteriore della serata negativa dell’arbitro, oltre che delle scelte di chi stava al Var, che hanno finito per orientare la gara verso Napoli. Com’è successo anche a proposito del fallo di mano commesso da Mertens in occasione del raddoppio tagliagambe dei partenopei.

Scelte legittime, anche se (molto) opinabili. Propendere per una decisione diversa avrebbe spinto la gara su territori alternativi, mantenendo lo status quo o lanciando in orbita la Lazio, con un uomo in più e un rigore da trasformare. Non è successo. Cose che capitano. Raramente ma capitano.

Seccante, semmai, il giudizio un poco a senso unico dei commentatori, solerti nel prendere le parti del Napoli come nel prendere quelle dell’Atalanta in occasione del discusso mani di Bastos nella finale di Coppa Italia vinta con pieno merito dalla Lazio.

Situazioni che sul campo accadono, curioso che nell’impossibilità di dirimere l’incertezza si prenda sempre posizione in senso contrario alla Lazio. Ma sarà, ovviamente, che guardiamo le cose con occhiali biancocelesti, oppure che per accorgersi di cose così  occorre, appunto, mettersi nei panni di chi sostiene le proprie ragioni. Che non sono poche, anche se fossero in minoranza, e non è detto.

Resta il risultato e il modo con cui è maturato, dopo lo show arbitrale. Che anticipa un verdetto che si può ancora riscrivere: Lazio fuori dalla CL, che soccombe a un lotto di avversari formidabili. Vero, ma il triplice fischio non è ancora arrivato, e una partita non dice tutta la differenza tra due squadre. Se ricordiamo il match d’andata la differenza, abissale, fu a favore della Lazio. Quindi, come sempre, bisogna guardare alla prossima partita, cercando di vincerla. Perché c’è sempre un’altra partita.

Il Napoli abbatte la Lazio. Ma nella partita che ha voluto l’arbitro

Napoli-Lazio, tra il terzo e il quarto minuto: Milinkovic-Savic rinvia la palla anticipando Manolas su azione di calcio d’angolo, alzando molto il piede, mentre il greco tentava di colpire la palla abbassando il capo. Sergej colpisce palla, poi finisce, forse, a contatto con il difensore. Si ribalta il fronte e Lazzari viene bloccato fallosamente da Hysay mentre si accinge ad affrontare, solo, Meret. L’arbitro non fischia niente, poi ascolta le comunicazioni del Var. Si pensa voglia decidere sul fallo subito da Lazzari. Ma va a  vedere il filmato che poi vedono tutti, il fotogramma è questo.

Chiaro come il sole. Ma Di Bello assegna il rigore al Napoli, ammonendo Milinkovic-Savic, il che azzera il rigore nettissimo a favore della Lazio, con l’espulsione dovuta alla chiara occasione da gol. Dal vantaggio numerico e nel risultato possibile allo svantaggio e all’ammonizione subita. Da lì comincia una partita che la Lazio gioca con volontà, non sorretta dalla fortuna: il Napoli fa un eurogol a ogni tiro, la Lazio coglie un palo con Correa e non trova modo di concretizzare una certa supremazia di gioco, fino al terzo gol subito. Poi si abbatte. Ha un sussulto sullo 0-4, segna un bel gol con Ciro, accorcia ancora con Milinkovic-Savic su punizione, ma becca l’ultima botta da Osimhen e finisce 5-2.

Un risultato che non ammette repliche, magari bugiardo nelle proporzioni. Ma è il risultato della seconda partita della serata: la prima, che Di Bello ha cancellato, forse sarebbe finita molto diversamente.

Il calcio si ribella alla SuperLega

Le immagini delle tifoserie in rivolta (almeno quelle inglesi: la sportività abita lì) sono la risposta più bella che il calcio riserva all’arroganza dei presidenti-cospiratori che hanno messo in piedi lo scintillante baraccone della Superlega, che s’avvia a morte ingloriosa a un paio di giorni dalla nascita notturna, manco fosse un fungo velenoso di quelli che ti dicono mangiami e poi muori.

L’arroganza di Florentino Perez, la doppiezza di Andrea Agnelli, la presunzione di chi credeva di poter incarnare un movimento che innerva l’intero pianeta, scompaiono miseramente davanti alla reazione veemente delle istituzioni del Football e al deciso rifiuto dei tifosi.

Così si scopre che i miliardi degli sponsor non sono tutto, mentre già si sapeva, quasi tutti, che se esiste il Real Madrid è per merito del calcio e non è affatto vero il contrario. Alla faccia dell’ingordigia di dodici club che di super hanno, molti, la bacheca, ma anche, tutti, l’indebitamento mostruoso, solo in parte dovuto ai rovesci imprevedibili della Pandemia.

Ingaggi folli, spese fuori controllo, voglia di far pagare il conto ai più piccoli, sostenendo che la salvezza del calcio passa per il ventre gonfio dei superclub che si sfidano in diretta a reti unificate in un superclasico a settimana.

Tutti insieme in una sporca dozzina che associa superblasonati e superindebitati, club di tradizione antica e di recente arricchimento. Stupiva lo stare fuori dal gruppo del PSG, che passa per essere il più posticcio dei grandi nomi del calcio europeo, ma esce benissimo dalla circostanza e si lancia verso l’agognata Coppa dalle Grandi Orecchie, che Eupalla non potrà negargli, per favorire le manacce avide del Real Madrid.

La reazione delle autorità, che hanno minacciato pesanti sanzioni, dei tifosi e degli altri club, soprattutto di quelli inglesi, ha dato il via alle defezioni: le sei inglesi, chi prima chi dopo, si stanno sfilando, facendo naufragare il progetto, accolte a braccia aperte dall’UEFA, figliolanza prodiga che lascia le altre allo scoperto.

Facile prevedere che l’afflosciarsi del progetto induca al dietro front tutte le altre, non foss’altro che per mettersi al riparo dall’ira funesta di Ceferin. Certo che più di qualcuno si meriterebbe una lezione di quelle sonore, soprattutto tra i tifosi che non hanno perso l’occasione per irridere chi dal megaprogetto restava fuori.

Beghe di secondo piano, tra social e calcio-pollaio, che possono trovare asilo giusto da noi, dove si sa che il fair play non ha mai attecchito. Se salta il banco lo sfottimento sarà un boomerang e i tre superclub gireranno accompagnati dalle sonore pernacchie degli altri, salvo consolarsi con i facili trofei e le regole aggirate a comando, in barba all’equità delle competizioni, e tutto il corollario del calcio malato che conosciamo.

La frontiera, però, in questo caso, è apparsa, bella solida: oltre un certo limite non è lecito andare. Se c’è un miliardo di asiatici che comprano questo prodotto non riuscendo a distinguere una Lazio da un Manchester City, c’è anche una realtà che rifiuta di riconoscersi in eventi creati ad arte ad uso e consumo del pubblico televisivo, e pretende di assistere a uno spettacolo sportivo dove chi sta in campo sia riconoscibile e riconducibile a una precisa geografia calcistica, scolpita nella pietra da più di un secolo di storia.

Non c’è Florentino Perez che tenga: i miliardi non comprano la voglia di correre dietro a un pallone dei bambini di tutto il mondo, che costituisce la base di un movimento che è vivo nei campetti di periferia, che racconta le palle di stracci delle favelas e le glorie dei Garrincha e dei Maradona che lì sono nati e cresciuti e che hanno scritto la storia del calcio, spesso sfidando la boria dei superricchi che credono di poter essere padroni di una passione.

Il calcio è di chi lo gioca. Il calcio è dei tifosi. C’è calcio oltre il Real Madrid, il Barcellona, la Juventus, l’Inter, il Milan. Una finale di Champions League tra Leicester e Porto sarà sempre un evento planetario. E i cinesi la guarderanno a miliardi, senza riuscire a distinguere l’una dall’altra, visto che hanno gli stessi colori. Se poi vai a chiedergli della Superlega e di Florentino Perez ti risponderanno: Flolentino chi?

La palla, intanto, rotolerà felice, al comando dei miliardi di piedi che la calceranno.