Interviste con laziali notevoli: Cesare Gigli


Cesare Gigli si autodefinisce Laziale di sinistra (non appena scopre dove sta). Adora John Lennon, Johann Chapoutot e Gianni Elsner.

Mi obbliga da subito, quindi, a cercare chi sia questo Chapoutot, che non ho classificato, nel mio infinito database di nozioni inutili. Si tratta di uno storico, il che rivela la grande passione di Cesare, che ha scritto dei saggi rigorosissimi, ma anche un romanzo storico. Polemista irriducibile (non nel senso della curva, eh, che sennò poi me le dà), ha collaborato con alcuni portali on line (Globalist, e, mi pare, l’Indro) e cura assiduamente un almanacco su twitter (@giglic). In realtà si tratta di un fisico, anche se non sembra averne il fisico. Ma i laziali, si sa, sono particolarmente intelligenti. Racconta di avere origini tra Latina e Roccagorga, ma mi fa strano, perché qui a Siena è pieno di Gigli e c’è anche un illustre omonimo, regista televisivo, mancato proprio quest’anno. E poi balla danze celtiche. Avrà qualche druido tra i suoi antenati?

Caro Cesare, cominciamo dall’inizio: mi racconti come sei diventato laziale e che ricordo hai della prima volta allo stadio?

Vengo da una famiglia a tradizione romanista, con un’importantissima eccezione: mio nonno, laziale da sempre. A Latina, per strano che possa sembrare, i laziali non sono tanti, e quei pochi, purtroppo, molto polarizzati politicamente parlando (c’è da dire che a Latina sono quasi tutti polarizzati in quella maniera). Così, per me la Lazio ero io e mio nonno. Aggiungi che quella squadra bella come il sole che vinse lo scudetto del 1974 l’ho vissuta che avevo 5 anni (ne avrei fatti sei meno di un mese dopo quel fatidico 12 maggio). Per la famiglia di mia zia, Alatrese e quindi romanista doc, e soprattutto per il fratello di mio nonno, da sempre capo dei romanisti di Roccagorga, fu uno scorno: tutti i loro progetti andati in fumo per colpa di una squadra fortissima. Per me, quei colori sono belli da quell’età. Il bianco e il celeste sono IL PALLONE.

La mia prima volta allo stadio è invece relativamente tarda: il 2 ottobre 1977. C’era un mio prozio (fratello di mia nonna) purtroppo morente, ed andammo a Roma a trovarlo. C’era Lazio Juve, QUEL Lazio Juve. Papà, forse per distrarmi, mi portò allo stadio. L’impressione fu fortissima: l’enormità del campo, i colori, il tifo, il 32 che da Piazza Risorgimento ci portava li colorato di bianco e celeste… e poi QUELLA partita: Garlaschelli segnò sotto i miei occhi, mentre il secondo gol di Giordano non riuscii neanche a vederlo. Tutti erano in piedi. la sensazione di aver visto qualcosa di esaltante e di storico fu immediata. Ogni volta che vado allo stadio, si ripete, ovviamente attenuata, quella sensazione, 41 anni dopo.

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QUEL Lazio-Juve (finì 3-0)

Come hai reagito quando hai appreso del calcioscommesse, la prima volta e le successive?

Vergogna. Vergogna totale. Fortunatamente, capitò quando non avevo amici intorno, ero solo con i miei. L’arresto, con quella macchina della polizia sotto la pioggia, la ricordo bene, ma non mi colpì molto. Era solo un episodio, pensavo nella mia testa di dodicenne scemo, che non avrebbe pregiudicato la salvezza, tanto è vero che quando vidi a due giornate dal termine la Lazio con 5 punti di vantaggio sulla terzultima (25 a 20, mi sembra) mi tranquillizzai. Quella notizia della retrocessione fu veramente una mazzata. La seconda, e definitiva per quanto riguarda la mia gioia infantile, La prima, ovviamente, fu l’omicidio di Re Cecconi. Nella mia testa, la Lazio “bambina” finì li. Cominciava la Lazio “adulta”, che poi tanto adulta, a dire il vero, non è.

Come si è evoluta nel tempo la tua considerazione di Chinaglia?

Visto con gli occhi di oggi, direi che dall’Achille invincibile e tragico, si è passati all’ “americano” che ci avrebbe riportato ai fasti di un tempo, fino alla macchietta che purtroppo negli ultimi tempi era diventato.
Ma Chinaglia è molto più di tutto questo.
E’ la Lazio che vince, che lotta e che viene odiata per questo, creando un’identità che ancora oggi ci fa pensare da grandissima quando grandissimi non lo siamo quasi mai stati.
E’ anche il motore primo di tutte le nostre imprese.
Chinaglia è Fiorini, purtroppo è anche Vinazzani. Chinaglia è l’urlo di Veron nel derby dello scudetto ed il calcio in culo a D’Amico. Chinaglia è lo scaldabagno di Ledesma ed il braccio teso di Di Canio. Cosa c’è di più laziale di Chinaglia?

Forse non c’è niente di più laziale di Chinaglia, ma alla prima uscita allo stadio ti sei goduto un’impresa memorabile di Giordano. Nel pantheon dei laziali come lo collochi? E chi altro ci metti?

Chinaglia è la Lazio.
Dopo di lui, escluso forse proprio Giordano, non ho più avuto calciatori da identificare con la squadra. neanche Nesta. Giordano, oltre ad essere fortissimo, rappresenta purtroppo una Lazio tragica e debole. Peccato.
Di lui ricordo il suo primo gol, captato alla radio mentre eravamo a Nettuno per una passeggiata pomeridiana, ed il pensiero di aver trovato un altro giocatore simbolo. Ma, andato lui, più nulla. Si, certo, Signori, Vieri, Klose (soprattutto Klose, per ciò che rappresenta per il calcio tutto).
Ma la Lazio per me è la squadra.
Basta entusiasmi per un singolo. E’ il motivo per cui ritengo Totti una delle figure più dannose per i romanisti. Ma siamo diversi, lo so.

Ecco, i romanisti. Credi davvero alle differenze cultural-antropologiche tra romanisti e laziali?

Credo alle differenze di tifo. Per noi l’identità è la squadra di calcio della Lazio, per loro l’identità è una metaidentità che vede la squadra presente solo in parte. La città. la romanità (posto che questo voglia dire qualcosa), il pupone…
La Roma non si discute si ama, dicono. A parte il fatto che non è così, loro vedono nella Roma non tanto la squadra di calcio quanto qualcosa di altro. Poi, ovvio, ci sono gli intelligenti e gli stolti in entrambe le tifoserie. Di certo, nessuna delle due squadre, al momento, sembra poter fare a meno dell’altra. E questo non è secondo me una cosa positiva, perché “forza” a vedere come prima cosa il campionato del GRA.

Non ricordi bene il primo scudetto, ma del secondo che mi dici?

No, il primo scudetto lo ricordo bene, compatibilmente con l’età: Il calcio (il pallone, meglio) era già una mia passione. Di quel 1974 ricordo tante cose, non ultimo il campionato del mondo: Sanon, il vaffa, l’Argentina e poi la Polonia, la vittoria di Sparwasser, Germania Svezia e poi la finale.
Della Lazio ricordo Lazio-Juve ed ovviamente Lazio-Foggia benissimo…
Fu il mio primo album Panini, oltretutto.

Del secondo (considera che mi sono sposato il 26 giugno del 1999) ricordo la delusione di quando stavamo a -9 punti dalla Juve, il derby di andata odiato e quello di ritorno amato, il gol di Simeone, il recupero improvviso dei punti (quando andammo da -5 a -2 ero a ballare danze celtiche a Casal Monastero, scoprii il risultato solo alla fine), il furto di Cannavaro, e la decisione di non andare allo stadio il 14 per evitare l’ennesima delusione.
Decisi di vedere non la Lazio, ma Perugia Juve su tele+ (all’epoca).
Ricordo la sensazione quasi di odio al gol di Calori (perchè volete illudermi, stronzi?) e poi il pianto, liberatorio, alla fine. Con mia moglie che capì e mi lasciò solo, uscendo.
Fu bellissimo, ma quasi – dopo ci pensai – dovuto.
Lo scudetto nostro, alla fine, era quello dell’anno prima.
Non ho mai vissuto la Lazio come squadra che DOVEVA vincere, e così qualsiasi trofeo me lo sono assaporato fino in fondo.

Ti piace la vita “tranquilla” della Lazio di Lotito  oppure ti manca la vita spericolata di prima?

Ma proprio per nulla. Lotito ha infiniti demeriti, e come persona credo che non ci scambierei neanche un caffè e cornetto, ma ha portato la Lazio, da una situazione veramente moribonda, ad una dimensione che se non è quella cragnottiana, è comunque superiore e di molto a quella di quasi tutta la sua storia.
Io Napoli, Como, Ascoli, etc etc me li ricordo, così come ricordo benissimo quando “loro” neanche ci vedevano: noi a prendere tre gol in casa dalla Reggiana e loro a vincere scudetti. Adesso, se non siamo tra i primi, siamo comunque tra i secondi. Io sono convinto che dovremmo liberarci solo dal complesso di quegli altri. Esistono, sono mediamente più forti, ma alla fine gli scontri importanti li abbiamo vinti sempre noi.

Può esistere una Lazio perennemente a ridosso delle prime, senza alti e bassi, in un tran tran ripetitivo che non consente sogni ma non espone a rischi per la sopravvivenza? Non ti manca un po’ la Lazio fuori controllo, capace di imprese memorabili e di miserie totali?

Si, può esistere, come è esistita la Lazio di centroclassifica (centro-bassa, spesso) per decenni.
Il “non consente sogni”, perdonami, è una cosa che non accetto. Io sogno ogni volta che la Lazio gioca, per 90′ interi (ogni tanto sono anche incubi…).
Sono, per costituzione culturale, un uomo di numeri. E so che gli scostamenti dalla media ci possono essere solo che sono in entrambe le direzioni. Preferisco siano piccoli, quindi. L’era cragnottiana (che iddio lo accolga nell’empireo dei creatori di sogni, ma il più tardi possibile) mi ha fatto sentire un grande del calcio, ma il contrappasso, pesante, poi è arrivato.
Se non si persegue una lotta per aumentare la “media”, qualsiasi intervento sulla varianza rischierà di sprofondarci.
E’ il motivo per cui preferisco Leiva a Milinkovic, Parolo a Felipe Anderson, Acerbi a Correa. Sono io, lo so. Ma per me la Lazio è il tornare bambino OGNI VOLTA CHE GIOCA. La classifica, gli scudetti, eccetera sono cose “lontane”, che quando arrivano sono così commoventi che si piange.
Da grande, per la Lazio ho pianto per la Coppa del 1998, molto di più che per quella del 2013. Quella arrivava come terzo trofeo in 4 anni, quell’altra dopo 24 anni di miserie, soprattutto di miserie.
E’ questo quello che intendo per “alzare la media”.
Insomma, Adelante con juicio.

Secondo te perché si insiste nel racconto della Lazio delle miserie, quella degli anni ’80, e si parla poco o niente della Lazio stellare di Mancini, Vieri, Salas, Veron eccetera?

Ci sono due modi di rispondere. Quello “neutro” è “Perchè le dimensioni tragiche ed epiche creano più immaginazione delle prove di forza. L’Iliade rende simpatici i troiani. Della Divina Commedia di Dante si preferisce l’Inferno al Paradiso.
Fiorini, Cavese-Lazio, eccetera (e in parte anche il primo scudetto lo è stato) hanno dimensioni epiche che il secondo scudetto non ha mai raggiunto. Neanche con il recupero da -9 (ripeto, sembrava un atto dovuto dopo il furto dell’anno prima)”.
Quella “politicamente scorretta” è:
“Perchè noi laziali, essendo dei non vincenti, abbiamo bisogno di eroi. Degli stessi romani, ricordiamo gli eroi sconfitti (Scevola, Coclite, eccetera) che non quelli vittoriosi (in genere, soldati e politici, non proprio con la patina eroica con cui si costruiscono leggende). In fondo, il DNA del tifoso laziale è quello di Fiorini, non quello di Veron.
E la cosa divertente è che se la prende con Lotito per questo”.
Ma questo non lo scrivere.

Hai scritto un libro sul tuo rapporto con la Lazio. Titolo: “Un’aquila nel cielo”. Com’è nata l’idea di scriverlo e come hai raccontato il tuo rapporto con la Lazio? Pensi di tornarci sopra o per te è un argomento esaurito? 

L’editore mi ha chiesto un libro sulla Lazio dopo il mio primo romanzo. Non ero felice della cosa. “Ce ne sono diecimila, Dario – gli dissi – perchè il mio dovrebbe essere diverso?”
Lui mi rispose “Perchè tu sei un tifoso consapevole”. Da lì è nato il libro: perchè a cinquant’anni suonati si è tifosi nella maniera in cui lo siamo noi? Perchè suddividiamo il mondo in “noi” e “loro” solo e – nel mio caso – esclusivamente in queste occasioni? Come è cambiato il mio tifo dai 6 ai 52 anni? E’ la “consapevolezza dell’inconsapevolezza” che guida il libro e che secondo me lo rende diverso da altri, celebrativi, storici o autocelebrativi. Non credo scriverò più sulla Lazio. Ciò non esclude che lo possa fare sul calcio o sullo sport, però.

Non scriverai più, forse, sulla Lazio, ma stai facendo un lavoro importante. Mi racconti la progressione del tuo lavoro di scrittura? Da Roccagorga a Luino, passando per i Quindici…

Diciamo che scrivere mi piace. Roccagorga è stato un fare pace con le mie origini. Un romanzo che dovevo scrivere in quella maniera, e che ho dovuto – soprattutto – vivere come l’ho vissuto. Fare una scuola di scrittura (La “Omero”) è stato il passo successivo. I racconti sono figli di quelle lezioni (non tutti), e del mio far pace con i 50 anni. Dopo di che sono tornato al romanzo storico. Questo è nato perchè un amico mi ha raccontato la storia di suo nonno (uno dei co-protagonisti), e ho immaginato un abruzzese a Luino nel periodo di Bava Beccaris. Adesso sono alle prese con Montecassino nel 1944, e poi ho in progetto un affresco enorme per Roma. Un unico romanzo che prenderà un secolo di storia.
Ma più in generale: scrivere mi “realizza”: vedere che ciò che hai in testa si sviluppa in qualcosa che dà emozione a qualcun altro è bellissimo.

Cesare Gigli ha scritto numerosi libri. Li trovate nel suo sito (www.cesaregigli.it) che potete raggiungere cliccando sull’immagine sottostante. Il sito raccoglie articoli e altri scritti, la sua rubrica Il giglio quotidiano, la pagina che parla dei suoi libri.

Qui c’è il link al suo libro “Un’aquila nel cielo” (si può anche acquistare)

Qui il suo nuovo libro “Il sangue di Luino”

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