Un post del 2015, riveduto e aggiornato per il derby: ci risiamo. Scritto su Globalist sport.
Il calcio romano, su scala nazionale, è storicamente di alto ma non altissimo, livello. Juventus, Inter e Milan hanno sempre comandato, ci sono stati periodi di grande fasto per Genoa, Pro Vercelli, Bologna e Torino, ma il dominio di una delle due squadre romane non c’è mai stato, se non per periodi brevi: la Roma ha vinto tre scudetti, la Lazio due. Le due squadre, però, hanno vinto una buona quantità di coppe: la Lazio prevale con quelle internazionali, che mancano alla Roma, e finisce per avere un palmares complessivamente più ricco di trofei (16 a 14).
Le due tifoserie si confrontano in un conflitto perenne, che negli anni è cresciuto, assumendo toni da scontro tra visioni del mondo contrapposte. Ciascuno sostiene le proprie ragioni: la Lazio è la squadra più antica, può vantare un suo Mito della Fondazione, è stata pioniera e custode dei valori dello sport italiano.
La Roma è nata con il progetto fascista di creazione di un campionato a girone unico, insieme a Napoli, Fiorentina e Bari, partendo da una fusione di squadre cittadine che avrebbe dovuto comprendere anche la Lazio. La quale rifiutò, accettandone sul campo le conseguenze, in un primo decennio del confronto dominato dai giallorossi, arrivati a vincere il primo scudetto in piena guerra.
Da allora la supremazia cittadina si è alternata, con alti e bassi delle due rivali. Più numerosi, all’inizio, i bassi: la prima retrocessione cittadina, toccata alla Roma (50/51, capitano Maestrelli, che vincerà da allenatore lo scudetto con la Lazio), la prima Coppa Italia, toccata alla Lazio (1958), gli anni ’50 complessivamente appannaggio dei biancocelesti, dopo un anteguerra principalmente romanista, ancorché segnato dal mito di Silvio Piola.
Gli anni ’60 con la Roma stabilmente davanti e la Lazio che fa sali e scendi dalla B, segnati però dalla colletta del Sistina che testimoniava le difficoltà economiche in cui versavano anche i giallorossi. Negli anni ’70 arriva come un fulmine a ciel sereno lo scudetto della Lazio, narrato in tutte le salse letterarie disponibili, negli ’80 Dino Viola costruisce una Roma stabile nei quartieri alti e ancora scudettata, il cui punto più alto rimane la finale di Coppa dei Campioni, l’odierna Champions League, persa ai rigori con il Liverpool. La Lazio, invece, rischia il tracollo per le note vicende legate al calcioscommesse, sprofondando in un lungo incubo che la porta a sfiorare il fallimento e la retrocessione in serie C.
Gli anni ’90 sono quelli in cui Cragnotti regala ai biancocelesti il sogno della grandezza: quotazione in borsa e scorpacciata di trofei, in Italia e in Europa: scudetto, Coppa delle Coppe, Supercoppa europea, cui replica subito la Roma campione di Sensi e Totti, all’alba del terzo millennio.
Il resto è storia recente: l’arrivo di Lotito, il curioso dualismo degli ultimi anni che vede una Roma stabile nei quartieri alti della classifica, ma sempre digiuna di vittorie, e una Lazio più modesta che riesce a cogliere le sue soddisfazioni, anche a scapito dei dirimpettai. Come nell’epico derby del 26 maggio 2013, quando le due rivali si contendono la Coppa Italia, che i laziali si aggiudicano con un gol del bosniaco Lulic. Una partita su cui un giornalista della vecchia guardia, Franco Recanatesi, ha addirittura scritto un libro.
Non sazia, la Lazio ha continuato a raccogliere trofei, tra le pochissime squadre in grado di sottrarre qualcosa al dominio juventino degli ultimi anni.
L’oggettività del campo è spesso stravolta dagli umori cittadini, che hanno un tracciato preciso, negli ultimi anni, scandito dall’alternarsi delle stagioni: l’estate è per tradizione recente giallorossa, anche se i colpi di mercato si sono diradati sempre più, complice una gestione economica dispendiosa. Dall’altra parte la proverbiale parsimonia di Lotito.
L’autunno è il tempo dei dubbi biancocelesti, con la tifoseria che soffre gli entusiasmi dei rivali e si macera nella preoccupazione: come resistere a un eventuale trionfo giallorosso? Come sopportare l’assordante canea dei festeggiamenti fino a notte alta, gli sfottò che si susseguono pianerottolo per pianerottolo, balcone per balcone, famiglia per famiglia?
In inverno la vena giallorossa comincia a inaridirsi, la primavera vede il tramonto delle speranze dell’uno e la fioritura dei sorrisi dell’altro. Le parti sono invertite, ovviamente, quando prevale la Lazio.
Si dice che ci sia una differenza antropologica tra laziali e romanisti. Il che non può essere vero fino in fondo, visto che si tratta di gente che vive sotto lo stesso cielo, spesso addirittura sotto lo stesso tetto. Però è vero che esiste un senso comune biancoceleste e un equivalente giallorosso: i laziali sarebbero più prudenti e fatalisti, i romanisti più caciaroni e portati all’ottimismo smodato. E a questo modo di essere ci si può adattare, anche scegliendo l’appartenenza all’una o all’altra sponda proprio in virtù delle differenze caratteriali.
La voglia di grandezza dei romanisti, spesso frustrata dagli eventi, porta a un recente meccanismo di cancellazione. I giallorossi tendono a rimuovere certe sconfitte: passi per lo scudetto quasi vinto, sfumato in casa col Lecce retrocesso (Roma e Juventus erano alla pari in classifica, ma i giallorossi venivano da una spettacolare rimonta che li voleva favoriti per la conquista della vittoria finale), in un pomeriggio canicolare al limite dell’irreale. La sconfitta ai rigori nella finale di Coppa dei Campioni disputata a Roma e persa contro il grandissimo Liverpool, dopo un match giocato per 120 minuti alla pari, dovrebbe essere, però, un ricordo che rende comunque orgogliosi.
E’ l’incubo della sconfitta che nega una grandezza rivendicata a gran voce, che tarda a trovare riscontri sul campo, probabilmente proprio per questa urgenza inconfessata, questo desiderio di conferma che non trova mai soddisfazione. Da qui al complotto il passo è breve, e maramaldo il tifoso laziale infierisce, spargendo sale sulle ferite altrui, dimenticando il tempo in cui si sentì anche lui vittima di un destino più baro che cinico, con lo scudetto lasciato al Franchi di Firenze, con quel rigore su Salas fatto da Mirri e negato da Treossi.
Non che quello fosse l’equivalente laziale del famigerato Gol di Turone, simbolo di tutti i complotti prima del Ti Amo Campionato di Elio. I laziali hanno sempre rivendicato con misura le proprie ragioni, in ossequio alla loro tradizionale vena silenziosa.
Le due tifoserie ultras allo stadio marciavano da anni verso una rivalità a specchio, che partiva dalla condivisione di valori non sempre edificanti. L’episodio più importante è quello del derby sospeso per la presunta morte di un bambino, nel quadro degli incidenti nel prepartita con le forze dell’ordine. Oggi, però, l’emergenza Covid le costringe più che altro a condividere il divano.
Il punto più basso nella storia della contrapposizione tra le tifoserie è il caso Paparelli, che vide l’uccisione del tifoso laziale che sedeva tranquillamente accanto alla moglie in curva nord, colpito alla testa da un razzo lanciato dal settore opposto, per mano di Giovanni Fiorillo, detto Tzigano, diciottenne tifoso della Roma, poi mancato a sua volta per una grave malattia. Un episodio che ogni tanto riemerge, per la crudeltà delle scritte e dei cori che lo rievocano, rivendicandolo nella tipica modalità ultras dell’insulto spinto alle estreme conseguenze.
Fuori da queste logiche retrive la rivalità è comunque vissuta visceralmente dai tifosi, che si prendono in giro, fino a sfiorare la rissa verbale. Uno scontro che si consuma quotidianamente sui social network, dove lo sfottimento viaggia a velocità supersonica.
Una conversazione infinita, che sconfina sulle pagine dei giornali e nelle redazioni radiotelevisive, a netta prevalenza giallorossa: i laziali se ne lamentano di continuo, tempestando le redazioni di missive recanti distinguo, relativizzazioni e contumelie all’incauto o fazioso cronista. Come nel caso delle vergognose figurine di Anna Frank, raffigurata con la maglia della Roma, che suscitarono scandalo nel 2017: le stesse figurine giravano, da tempo, con la foto della ragazza morta a Bergen-Belsen, simbolo della Shoah, raffigurata con la maglietta della Lazio. Circostanza che non trovò spazio nei media, per distrazione, per tifo, o per qualche motivo che sfugge. Cose di cui ci si dovrebbe vergognare, ma c’è chi pensa che il tifo giustifichi ogni bestialità, allo stadio o con la penna in mano. Purtroppo il derby dell’idiozia è finito, in questo caso, in parità.