Uno non fa in tempo a entusiasmarsi per la sarreide, il ritorno di Felipe Anderson e le magnifiche sorti e progressive della squadra che sta nascendo, che torna il grugnito dei fascisti che infestano la curva della Lazio.
I fatti si conoscono: Hysaj ha cantato Bella ciao nel ritualino social dei giocatori della Lazio. Ciascuno canta una canzone. Lui quella. Che l’abbia cantata perché gli piace, per far riferimento a una serie tv o a un contenuto storico/politico, fatti suoi. Si tratta di una canzone popolare conosciuta in tutto il mondo, non si vede quale sia il problema.
Insorge, però, le vene del collo gonfie, il fascistone curvarolo: questa canzone non s’ha da cantare. E tanti a porsi la questione dell’opportunità: ma nun potevi cantanne n’antra? No.
L’aggressione subita e la discussione seguita dimostrano ancora una volta un punto di vista: di certi comportamenti sembra ci si debba giustificare.
Altri, invece, viaggiano tranquilli e arrivano a destinazione senza che si sollevi un ma. Così diventa lecito mettere sotto accusa (e intimidire, insultare, minacciare) un ragazzo solo perché ha cantato una canzone cara ai partigiani. Un inno di libertà cantato da quelli che hanno lottato contro il fascismo: c’erano tutti, comunisti, socialisti, cattolici, azionisti, monarchici eccetera.
La società costretta a fare due comunicati, uno soft prima dello striscione minaccioso degli ultras, uno più duro dopo, sempre arrovellato di arzigogoli che decorano un concetto che si potrebbe rendere con una mezza riga scarna e definitiva: la Lazio non è fascista.
Ma viva la Lazio, e grazie per lo sforzo fatto.
La reazione veemente e generale dei tifosi di buona volontà, di sinistra, di centro e di destra, segna un piccolo cambiamento che arriva anche sulla maggior parte dei media: si fanno i distinguo, si parla di frange estremiste e oltranziste (basterebbe parlare di frange fasciste), si capisce, finalmente, che la Lazio di queste manifestazioni odiose è ostaggio, che le subisce e ne paga i danni. Un concetto che gridiamo in tanti da più di un quarto di secolo, senza mai stancarci, e che dai e dai forse comincia a passare.
I tifosi della Lazio sono centinaia di migliaia, gli ultras nazifascisti qualche decina.
In cerca di una visibilità che manca, per tutte le frange ultras interessate, da quasi un anno e mezzo. Questa storia gli ha restituito le pagine dei giornali, ma anche, per quello che vale, la rabbia e la disapprovazione della stragrande maggioranza dei tifosi.
Quelli tenuti in ostaggio, la domenica, allo stadio, dal solito gruppo violento e prevaricatore.
Una storia semplice da raccontare, anche se le troppe socialscimmie attive su questi temi si riempiono la bocca di stupide battute tifose. Chiunque segua le vicende del calcio conosce le dinamiche che hanno portato alla colonizzazione delle curve da parte di gruppi spesso legati all’estrema destra, che sovente trovano spazio sui media per fatti di cronaca che con lo sport non hanno niente a che spartire.
Che tifare per una squadra non c’entri niente con la politica è pacifico.
Che un tifoso si debba sentire in obbligo di dissociarsi da comportamenti da codice penale di qualche esaltato è una ridicolaggine tutta nostra.
Possono mai porsi una questione del genere un Alessandro Portelli, un Edoardo Albinati, un Riccardo Cucchi? No. E perché dovrebbe sentirsi in obbligo di farlo uno qualunque dei tantissimi laziali antifascisti?
Salutiamo, perciò, la ritrovata sensibilità dei media, auspicando che la Società faccia l’ultimo sforzo per comprendere che c’è differenza tra lo stigmatizzare genericamente certi atti e condannarne esplicitamente la matrice politica fascista.
Una condanna implicita non equivale a un grido, forte e chiaro, che dica che la Lazio rifiuta ogni accostamento al fascismo. Per Maestrelli partigiano, per Bitetti che il Duce lo consegnò ai partigiani, e per tutti i laziali che si riconoscono nella Costituzione.